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 2023  luglio 22 Sabato calendario

Le poesie di Mao

Le poesie di Mao, il «Grande Timoniere», posseggono una scaltra bellezza. «Sopraffatto dall’immensità, chiedo:/ Infinito azzurro, sconfinata terra,/ chi governa i vostri destini?», recita una poesia del 1925. Spesso, i versi di Mao hanno un’impronta etica «La nostra volontà è muraglia incrollabile», la cifra di un enigma: il marasma della Storia è celato da immagini icastiche, dipinte su ceramiche. Una quartina come questa, «Montagne!/ Cime appuntite trafiggono il cielo azzurro./ Il cielo cadrebbe,/ Come pilastri lo sostengono», è stata composta durante la Grande Marcia, nel 1935. In una poesia del 26 dicembre del 1962 Mao scrive che «Solo eroi intrepidi affrontano tigri e leopardi/ E i coraggiosi non temono l’orso selvatico», riferendosi, ci spiegano gli esperti, ai cattivi rapporti intercorsi con gli Stati Uniti (le tigri) e l’Urss (l’orso). L’ultimo distico è di felina ferocia: «I fiori di pruno festosi nel cielo nevoso/ non stupiscono che le mosche siano morte». Nelle poesie, il rivoluzionario Mao, predicatore di «una letteratura per il popolo», adotta il metro tradizionale e l’iconografia classica, rifacendosi al canone della grande poesia cinese: Li Po, Wang Wei, Po Chu-i. Per capire la Cina di oggi, più che i trattati di geopolitica troppi, vaghi bisogna leggere le poesie di epoca Tang: un tempo Einaudi le pubblicava nell’affascinante traduzione di Martin Benedikter. Pedissequo paradosso: per capire la Cina di oggi bisogna leggere anche Ezra Pound. Il grande poeta americano, che ha perfezionato il proprio linguaggio lirico traducendo gli antichi poeti cinesi Cathay esce nel 1915, si è scagliato, per anni, contro «lo stato degli studi cinesi in Occidente, vomitosamente squallido... i professori inglesi e americani sono talpe». Quando i partigiani lo prelevarono, a Sant’Ambrogio, nei recessi di Zoagli, era il 3 maggio del 1945, il poeta prese con sé, infallibile conforto, un libro di Confucio: in gabbia scriveva i magnetici Pisan Cantos e traduceva gli Analecta, pubblicati da Scheiwiller nel 1951. Pound pensava che Confucio e Mencio «contengono le soluzioni di tutti i problemi di condotta» insieme a Dante, a Omero e ai «tragediografi greci» fossero la base di ogni sana educazione, in contrasto all’«infamia dell’attuale sistema monetario». Nel 1974 l’editore Feltrinelli pubblica Pound e la Cina, uno studio ora introvabile firmato da Girolamo Mancuso che è stato, non incidentalmente, il traduttore delle poesie di Mao per Newton Compton. Il cerchio si chiude. In effetti, un tempo le poesie di Mao erano idolatrate, in Italia, come il più squisito palio del «maoismo», una sorta di dottrina politica esoterica. L’edizione Garzanti delle poesie di Mao è il 1976 esalta, in copertina, «I versi inattesi e classici di uno degli uomini più segreti e più pubblici del nostro tempo»; nel 1972 Mondadori stampa una versione di 37 «liriche del presidente Mao con il commento ideologico-letterario» del sinologo Joachim Schickel, mentre nel 1998 la collana mondadoriana «I Miti Poesia» riprende l’edizione, raffinatissima, dei 36 fiori di carta, stampata, nel 1980, da Franco Maria Ricci. Due mandarini della letteratura nostra Alberto Moravia e Franco Fortini hanno firmato burocratiche introduzioni alle poesie di Mao. Va detto che di Mao, Moravia capì poco, confondendo poetica e sopraffazione, lirica e urlo: «Mao non è Stalin. Mao non vuole il potere personale attraverso la violenza, come Stalin. Mao l’educatore, Mao il dialettico, vuole il potere ideologico attraverso la persuasione e l’educazione» (così in: La rivoluzione culturale in Cina ovvero il convitato di pietra, Bompiani, 1967). La nuova edizione delle Poesie di Mao Zedong, stampate da Luni nella traduzione di Isabella Doniselli Eramo e con un’introduzione di Oliviero Diliberto (pagg. 144, euro 17), è utile più che per fini estetici (poeticamente, è bene leggere altro), per motivi politici. Il tema dominante, infatti, è quello dei rapporti tra poesia e politica, termini che ai più paiono inconciliabili. Errore madornale: dominare la forma lirica significa saper obbedire alle norme e al contempo sovvertirle, da dentro; vuol dire imparare ad alternare equilibrio e istinto, ad alterare la ragione con l’ispirazione, calmierare l’ordine con il barbarico. La poesia è connaturata alla creatura: con i versi, l’uomo vela e rivela se stesso. Per questo, per essere assunti tra i ranghi dell’impero e assurgere ai più alti scranni della dignità politica, i funzionari cinesi dovevano passare estenuanti esami di retorica e di poetica, dimostrando di conoscere a memoria il Libro delle Odi raccolto da Confucio (e tradotto da Ezra Pound come The Classic Anthology Defined by Confucius, 1955). Un bel romanzo di Inoue Yasushi, lo straordinario autore de Il fucile da caccia, in orbita Adelphi, Tun-Huang, ancora inedito in Italia potete leggerlo in inglese spiega bene il sistema di reclutamento politico cinese. D’altronde, gli imperatori giapponesi mettevano lo stesso impegno nell’allargare i propri confini come nell’elaborare enormi antologie poetiche, garanzia di eternità; la più nota di queste, il Kokin Waka sh, compilata nel X secolo, postula che «La poesia, senza ricorrere alla forza, muove il cielo e la terra, commuove perfino gli invisibili spiriti e divinità, armonizza anche il rapporto tra l’uomo e la donna, pacifica pure l’anima del guerriero feroce». La categoria del «politico», insomma, è sempre stata ancillare alla prassi poetica. Vladimir Majakovskij è stato l’autentico motore della Rivoluzione russa; Aleksandr Blok ne fu l’allucinato cantore con il poemetto apocalittico I dodici e uno degli adepti: nominato redattore capo della «Commissione straordinaria d’inchiesta sui crimini dei ministri e funzionari zaristi» si accorse quasi subito che «il popolo rivoluzionario non ha fatto altro che distribuirsi attorno alla stessa torta davanti alla quale sedeva la burocrazia». Ancora oggi, il mondo inglese riconosce al poeta un privilegio politico. L’incarico di «Poet Laureate» non è conferito da un’associazione di letterati ma dal primo ministro inglese in concordia con il monarca. Al poeta dal 1668 in qua, da John Dryden, si sono alternati, tra gli altri, William Wordsworth, Alfred Tennyson, Ted Hughes è permesso di scrivere ciò che gli pare, di giocare al fool. Così, per dire, nella poesia per l’incoronazione di Carlo III, scritta da Simon Armitage, attuale «poeta laureato», An Unexpected Guest, ciò che manca è proprio il re: i protagonisti sono un’ordinaria signora della middle class e un house sparrow, un passero. Da noi, terra di sedicenti poeti, i poeti, se va bene, vengono zittiti con l’onorificenza venatoria, veniale, di senatori a vita (è capitato a Mario Luzi e a Eugenio Montale) o con la museruola di un vitalizio. Anche i grandi re hanno scritto poesie: dall’imperatore Monmu vissuto nel VII secolo, salì sul trono giapponese a quindici anni, scrisse di lune, di alberi caduchi e di «nebbiose spiagge» all’imperatore Adriano animula vagula blandula, da Marco Aurelio ad Aoka (che preferirono esprimersi in editti o aforismi), tuttavia, i grandi sovrani più che abbeverarsi del canto hanno bisogno di obbedienti cantori. Ritirando il Nobel per la letteratura, Iosif Brodskij, poeta russo esule negli Usa, disse che un capo di Stato, «potenziale padrone dei nostri destini», andrebbe scelto dopo avergli chiesto «cosa pensi di Stendhal, Dickens, Dostoevskij. Già per il fatto che il pane quotidiano della letteratura è l’umana diversità e perversità, la letteratura si rivela un antidoto sicuro contro tutti i tentativi già noti o ancora da inventare di dare una soluzione totalitaria, di massa, ai problemi dell’esistenza umana». Era il 1987, il Presidente Mao era morto da dieci anni, in Cina governava Deng Xiaoping. Le considerazioni di Brodskij, memorabili, sulla carta, sono malinconicamente ingenue. La poesia fa bene forse a chi la legge; non rende buono chi la scrive. Mao ha scritto poesie per tutta la vita, alcune di esemplare chiarezza («Spazzare via gli insetti nocivi/ E non avremo più nemici»): ciò non gli ha impedito di compiere efferatezze.