Tuttolibri, 22 luglio 2023
Su Bouvard e Pécuchet di Flaubert
Nel caldo appiccicoso di un’estate parigina del 1839, due uomini si ritrovano sulla stessa panchina di un boulevard. Lavorano entrambi come copisti, l’uno presso una ditta di tessuti, l’altro al Ministero della Marina. Vanno per i cinquanta, si dichiarano subito frustrati e delusi dal loro lavoro. Vagheggiano ingenuamente i la libera vita di campagna, come se le immaginano i cittadini. Uno è un vedovo senza figli, tracagnotto, impulsivo; l’altro un single spilungone dal viso infantile e malinconico. Prendono a scambiarsi confidenze, si piacciono subito, provano «l’incanto delle tenerezze in boccio».Nasce un’amicizia granitica, che diventa ménage quando Bouvard si ritrova ad ereditare dal padre naturale una piccola fortuna che consente l’acquisto di una casa padronale con cascina e podere, nella piatta pianura normanna tra Caen e Falaise, poco distante dal mare. «Presi da una venerazione quasi religiosa per l’opulenza della terra», estasiati alla vista di cavoli e carote, si improvvisano agricoltori. A corto d’esperienza, e diffidando del fittavolo, devono ricorrere all’autorità di manuali, trattati, enciclopedie, riviste, le cui istruzioni contraddittorie si rivelano presto inadeguate e anzi disastrose. E tuttavia gli insuccessi non bastano a frenare la loro sete di conoscenza, che anzi si estende ad ogni campo del sapere, in un delirio di letture sempre più ramificate e affannose.Ad ogni entusiasmo iniziale corrisponde puntualmente una delusione. Non c’è scienza che sembri in grado di fornire risposte sicure ai loro assilli. Per consolarsi, provano ad abbellire il giardino con finte tombe etrusche, simil-ponti di Rialto e pagode cinesi, tra lo sbigottimento dei maggiorenti locali. Si cimentano con le confetture, affrontano la chimica, e via a seguire: anatomia, fisiologia, alimentazione, zoologia, astronomia, geologia, archeologia con relativi fossili, fino alla Storia, dagli antichi culti dei Celti ai Merovingi e alle cattedrali. Ma poiché si rendono conto che «i fatti esteriori non sono tutto», cercano di illuminarli con la psicologia, l’immaginazione, i romanzi storici, lo spiritismo, il magnetismo. Nel frattempo arriva il febbraio 1848: Parigi si copre di barricate, tutti piantano alberi della libertà. Fioriscono ambizioni politiche anche in paese. Invano i due chiedono lumi all’economia politica. Poi arriva il colpo di Stato di Napoleone III nella rassegnazione generale.Nel frattempo si ritrovano impegolati in disavventure amorose. Bouvard insegue la piacente vedova Bourdin, salvo scoprirla interessata solo alle sue proprietà; il casto Pécuchet corteggia la servetta, ma dalle sue goffe arti seduttorie ricava soltanto un’imbarazzante malattia venerea. Per dimenticare, si lanciano nell’ultima impresa impossibile: rieducare i figli di un galeotto, sempre con l’aiuto dei manuali. Alla fine decidono di tornare al loro vecchio mestiere di copisti: forse solo fissando su carta sistemi di pensiero diversi e opposti si può creare una sorta di sospensione salvifica. È un’ipotesi, perché Flaubert muore proprio durante la stesura dell’ultimo capitolo.Si è soliti parlare di Bouvard e Pécuchet come di due idioti. La loro presunta bêtise è diventata proverbiale. Ma stupidi non sono. Incarnano a meraviglia l’uomo-massa, oggi tanto diffuso: provvisto d’un robusto istinto gregario, tuttologo credulone che si ingozza di frasi fatte, saltando superficialmente da un argomento all’altro, incapace di scegliere perché non sa cosa cercare. Ma con il procedere del romanzo, Flaubert scopre che i suoi eroi vanno almeno rispettati. Stupido è infatti non chi sbaglia, ma chi crede che si possa arrivare a una conclusione, ad avere una risposta preconfezionata per tutto. Dunque i presuntuosi, i supponenti, i dogmatici: «Siamo un filo, e vogliamo conoscere la trama». Loro invece accettano i propri limiti, elaborano il lutto delle sconfitte, si mettono in discussione. Come il loro autore, provano insofferenza per la bêtise che hanno imparato a riconoscere. Alla fine Flaubert potrebbe dire, come già nel caso di Madame Bovary, che «Bouvard e Pécuchet c’est moi».Per il resto, non si salva nessuno in questo geniale romanzo filosofico che anticipa i talk show e i reality d’oggi, che inventa le tecniche del pop per tampinare la banalità fin nella toilette, se necessario. Flaubert usa l’impassibilità del referto (leggendolo non si capisce mai bene di chi parla) per stilare una requisitoria spietata contro l’omologazione al ribasso e un falso sapere consolatorio e ingannevole. Negli ultimi anni della sua vita si sottopone a letture estenuanti (almeno 1.500 opere lette e schedate, 2.300 cartelle di appunti), si documenta su tutto per realizzare con precisione ingegneresca la vendetta contro il mondo. La stupidità lo indigna e al tempo stesso lo affascina. Fa dire a Pécuchet che i borghesi sono spietati, gli operai invidiosi, i preti servili e il popolo vile e insulso, e a Bouvard che il progresso è una «fandonia» e la politica una «bella porcheria», ma non sa farne a meno.Alla farsa del vivere Flaubert oppone le grandezze di un’arte esercitata con un impegno totale. La vittoria è proprio quella di fare arte con un materiale così degradato. Come potrebbe fare oggi uno scrittore che sapesse raccontare la contemporaneità usando le montagne di spazzatura che si trovano sui social, sulla tv trash, sui giornali sempre più strillati.