Robinson, 22 luglio 2023
Biografia di Nicla Vassallo raccontata da lei stessa
Dopo qualche anno di tristezze e delusioni, Nicla Vassallo è tornata a Genova a insegnare nella sua università: «Cambiai città convinta di trovare a Roma la gioia che avevo perso. E invece niente. Roma ti affascina, poi ti inghiotte e ti sputa come un rigurgito. Lo so, so cosa pensi: ecco l’ennesima illusa che credeva che a Roma tutto fosse possibile, perché è città aperta, città del compromesso, del volemose bene. Beh, un po’ ci ho creduto. Ho resistito e mi sono fatta male».Nicla è tra le donne più sofferenti e intelligenti che conosca. Insegna filosofia teoretica, scrive poesie, va in barca a vela, gioca a padel, in omaggio a quel culto del corpo che il tempo e i farmaci hanno un po’ trasformato. Mi guarda con occhi che a volte sorridono, a volte assenti, rivolti altrove, a qualche paesaggio mentale che come nuvole il vento muove nella sua testa.Ho letto prima di incontrarla alcuni suoi libri di poesia (uno scritto durante la pandemia) e qualche testo più strettamente filosofico, come quello dedicato alla filosofia dell’ignoranza. Colpisce il titoloNon annegare. C’è una punta di enfasi drammatica. Non annegare è una esortazione, ma anche un allarme per una condizione che mette in pericolo l’esistenza.Hai mai avuto la sensazione di annegare?«Amo il mare, e ne accetto i rischi. Durante una gara della Giraglia si alzò un tremendo maestrale, si ruppe il timone e cominciammo a imbarcare acqua.Eravamo due donne in balia della burrasca. Stemmotutto il giorno a lottare per non “annegare” appunto.Fummo recuperate la notte da una nave militare. Da quell’esperienza capii in un certo senso cos’è l’estremo. Quella vicinanza alla morte che più che dischiudere verità ulteriori, definisce o riassume ciò che sei stato e ciò che hai fatto».Hai preso la parola “annegare” quasi alla lettera, intendevo qualcosa di più lato e interiore.«A volte si annega nella sofferenza e nel dolore.Sentimenti che ho provato e provo tutt’ora. Ma il non annegare, nel caso del mio libretto, lo intendo come un provare per non perdersi nel conformismo, nei pregiudizi, in una parola nell’ignoranza».Dai molto valore alla conoscenza?«È tra i pochi antidoti contro il veleno della stupidità. Non parlo della persona colta, un colto può essere stupido tanto quanto un incolto. Mi riferisco al buon metodo dell’argomentare, oggi completamente disatteso, tradito, crivellato dai luoghi comuni».Non sei troppo liquidatoria?«Le ultime e roboanti conquiste delle tecnologia hanno indebolito la parola. Ormai si accettano o si riescono a sopportare soltanto discorsi veloci e semplificati. La televisione produce maschere; Internet ha prodotto mostri. La mostrificazione della parola è l’ultimo dono avvelenato che la nostra decadente civiltà si è concessa. Te lo dico anche nella constatazione del mio carattere ligure».Sei molto riservata. Dove sei nata?«A Imperia. Fu il Duce a unire Porto Maurizio e Oneglia e in omaggio all’impero chiamò la città Imperia. Fino a quel momento gli abitanti di Porto Maurizio e di Oneglia si prendevano a sassate. Mianonna, quando mi portava a Oneglia diceva che l’unico suo pregio era che da lì si vedeva bene Porto Maurizio».Che nonni hai avuto?«A conti fatti migliori dei genitori. È stato mio nonno a farmi amare e conoscere il mare. Con il suo gozzo mi portava a largo. Lo vedevo remare in silenzio e senza sforzo alcuno. Avevo dieci anni ed era il periodo in cui ho cominciato a leggere poesia».E a scriverla quando?«Quasi subito, scrivevo e riempivo i cassetti di poesie. Le ho gettate tutte a diciassette anni, dopo il suicidio di un caro amico. Quelle successive non sono finite nel cassonetto della spazzatura, sono diventate un rifugio sperimentale che credevo del tutto solitario. Poi, invece, ho pubblicato la mia prima raccolta sotto la sollecitazione di un mio professore che mi diceva “sono l’altra faccia di te”.Ma credo avesse frainteso. L’altra faccia di me si deve ai miei nonni materni contadini, che dall’Oltrepò Pavese migrarono in Francia, e ai miei nonni paterni, figli di navigatori che avevano doppiato pure Capo Horn. Grazie a loro ho imparato a lavorare in campagna e a navigare in mare: mestieri che esigono una grande dose di razionalità e di rigore, al pari della filosofia, che con la poesia non ha nulla a che fare, dai tempi dei greci fino a Kant, se non quello di condividere il senso del temerario».Hölderlin scrisse che solo dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva.«È un pensiero intenso ripreso mi pare da Heidegger, un filosofo che non amo. La temerarietà implica il rischio, ogni prova, ogni iniziazione contempla la possibilità del fallimento. Si può essere temerari nel pensiero ma anche in tanti altri modi.Per esempio nello sport che ho praticato, anche a livello agonistico, con una predilezione per il nuoto, la vela e lo sci. Non mi interessava vincere, piuttosto dare il meglio di me, ciò che cerco di fare ancor oggi in filosofia, lavorando duro».L’interesse per la filosofia come nasce?«Dopo la maturità decisi di iscrivermi a Fisica.Eravamo in tutto dieci e io unica donna, dopo pochi mesi lasciai Fisica per Filosofia. Non avevo stabilito nessun feeling con gli altri studenti. Mi sentivo un corpo alieno, alieni i miei interessi rispetto alle loro esigenze di ventenni che non avevano letto un libro di poesia, un romanzo o visto un film decente».Come fu il passaggio a un’altra facoltà?«All’inizio seguii il percorso epistemologico. Dopo tutto mi interessavano i problemi legati alla scoperta scientifica. Provai anche a leggiucchiare Heidegger.Scoprii quasi subito che mi annoiava a morte. Della sua prosa non comprendevo quasi niente. “Il nulla che nullifica”, che vuol dire? boh! E poi deprecavo il suo hitlerismo. Per me la buona filosofia fa a pugni con la dittatura. Alla fine mi laureai con una tesi sul rapporto Boole-Frege. Lo psicologismo del primo e l’antipsicologismo dell’altro. Erano stati messi in contrapposizione, in una specie di gara per stabilire chi dei due avesse fondato la logica matematica».La tua risposta quale è stata?«Alla fine Frege cominciò a parlare di leggi della mente invece che di leggi logiche, perciò giunsi alla conclusione che tra lui e Boole non ci fosse tutta questa differenza. Dopo la laurea ho fatto per qualche anno la skipper e in seguito feci domanda in cinque università inglesi. Tre di esse accettarono il mio programma di ricerca. Alla fine mi trovai davanti al dilemma se preferire Oxford o il King’s College London. Entrambe erano il top. Per il tipo diproblemi che affrontavo scelsi il King’s. Avevo 28 anni. Qui fui catapultata in un mondo del tutto ignoto, quello della filosofia analitica, ove a contare e dominare sono la razionalità e il rigore argomentativo. Heidegger & Co, al pari degli esistenzialisti, gli ermeneutici e via dicendo, non li ho mai sentiti neanche nominare. E poi mi trovavo a Londra: musei, mostre, concerti, passeggiate, nuotate nella piscina olimpionica del college, jogging nei parchi».Quanto sei rimasta a Londra?«All’incirca un anno. Pur in seguito tornandoci spessissimo. Rientrai a Genova per la morte precoce di mia madre. Dopo un dolore acuto, che mi ha condotto alla depressione, filosofia e sport mi hanno salvata. Non ho riscontrato problemi a praticare sport, molti invece a praticare filosofia, con cui dovevo mantenermi: una borsa di studio dietro l’altra, sull’orlo della povertà, con l’ansia di non trovare la successiva, fino a quando a quarantuno anni sono diventata professore ordinario. Senza raccomandazioni – ci tengo a precisarlo».A un certo punto dalle teorie della conoscenza sei passata a occuparti di femminismo.«A studiare e scrivere di filosofie femministe (non di femminismo, il quale è un movimento politico) non sono giunta subito. Al King’s mi premevano di piùepistemologia, logica filosofica e metafisica.Dell’epistemologia, nel senso di filosofia della conoscenza, mi sono innamorata ed è stato inevitabile approfondire leMeditazioni di Cartesio».Proprio Cartesio è stato visto dal pensiero femminista come l’interprete di una filosofia “maschilista”.«Mi sembra che un certo femminismo, penso a Rosi Braidotti, abbia confuso il ruolo della separazione mente-corpo stabilita da Cartesio. Se si può affermare tranquillamente che troppi filosofi, a partire da Aristotele, sono stati “maschilisti” con dichiarazioni esplicite e alcuni lo sono tutt’ora sul piano perlomeno delle azioni, Cartesio è stato l’unico della sua epoca a non denigrare le donne e a dialogare di filosofia con le donne, per la precisione con la principessa Elisabetta di Boemia e con Cristina di Svezia».Proprio nel seicento la filosofia cerca di emanciparsi dal dominio religioso.«Si stabilisce una volta per tutte che la filosofia non è un culto e che è tra i pochi saperi che l’Occidente può rivendicare come forma autonoma del pensare».Non vale per l’Oriente?«Lì la mistura religiosa è troppo forte perché si possa distinguere il pensiero dalle forme religiose. Anchese il buddismo ha fornito dei buoni logici. Così come la religione cristiana buoni filosofi: la scolastica, Tommaso, Occam, tanto per fare degli esempi».Torniamo al femminismo. Ti definisci femminista?«Ho qualche esitazione, la ragione principale è che esistono parecchi femminismi. È una pluralità più che legittima ma mi risulta difficile comprendere bene per quale di essi optare. Col tempo le epistemologie femministe si sono trasformate nel mio campo di ricerca principale, congiuntamente con quello dell’appartenenza alle categorie di sesso e genere, e dei temi che ne conseguono. Questo è avvenuto ben prima che ciò si trasformasse in una moda italiana».Intendi dire che c’è una sopravvalutazione del pensiero femminista?«Diciamo una sopravvalutazione di alcune autrici.Come Judith Butler o, per fare un esempio storico, Simone de Beauvoir. La quale è passata per la filosofa femminista per eccellenza, quando, invece, nella realtà Il secondo sesso è un grande libro contro le donne».Oggi prevalgono discorsi su gender, queer, omosessualità. Dichiarati spesso in prima persona. Qual è la tua posizione?«Non amo parlare pubblicamente delle miepreferenze sessuali. Non lo faccio per una questione di pudore pubblico – diverso è parlarne con amici e amiche – quanto perché quel che filosoficamente sostengo non dipende, né deve dipendere da qualsiasi mia preferenza, quella sessuale inclusa, oltre che da quella politica, religiosa e via dicendo.Da qui la mia libertà di fare esclusivamente filosofia, senza contaminarla con la mia vita privata. E in filosofia si può comunque ragionare anche sui rapporti sentimentali, per esempio sull’amicizia e sull’amore: lo si è fatto a partire da uno dei più noti dialoghi socratici, riportati da Platone, che tra l’altro vedeva la presenza di una donna, Diotima».È così importante la filosofia?«C’è un eccesso di sovraesposizione. Per fortuna faccio anche altro. Mi posso concedere due settimane con una barchetta, o facendo sci, senza sosta, in Engadina. O una seduta di psicoanalisi alla settimana, benché dubiti che la psicoanalisi sia una scienza e che gli psicoanalisti abbiano qualcosa di serio da dire al grande pubblico. Mi diverte Virginia Woolf quando commenta ironica di due conoscenti rientrati, smagriti, gracili, tristi dopo quasi un anno di “lettino” con Freud: “E così è questo che fanno dieci mesi di psicoanalisi”».