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 2023  luglio 22 Sabato calendario

Biografia di Guido Gozzano

«Questa cosa vivente» che è Gozzano, nonostante siano trascorsi circa centoquarant’anni dalla nascita, 19 dicembre 1883. La culla del poeta, a Torino, in via Bertolotti, quasi in piazza Solferino, dove sorgeva La Stampa di Alfredo Frassati, a cui il Bel Guido invierà le “cronache” dall’India, la cuna del mondo verso cui fece vela per attenuare se non guarire il suo mal sottile, non meno avvolgente del «male senza rimedio» che è la letteratura.Gozzano apparve alle 4.30 pomeridiane, prossima «l’ora vera di Torino» che risuona in una delle sue liriche più note. È il crepuscolo, si avvicina il cambio di guardia fra luce e ombra («… ardono l’Alpi tra le nube accese»), i salotti vanno ricevendo un’«accolita di gente / ch’a la tristezza d’una stampa antica…».L’anima crepuscolare di Guido Gozzano. Quale pulsa, quale balugina, nelle sue due raccolte, La via del rifugio(1907, da Streglio) eI colloqui(1911, da Treves). Dominante, la perplessità, così come vacilla la luce al tramonto, così come la fiammella esita a sprigionarsi nei lampioni, così come la veletta indugia prima di nascondere il volto femminile.La “perplessità crepuscolare” che rifulge nella Signorina Felicita ovvero la Felicità, ulteriore gemma del canzoniere gozzaniano. Guido perplesso di fronte alla donna (la relazione non relazione con Amalia Guglielminetti); di fronte al sapere(«Giova il sapere al corpo che ti langue? / Vale ben meglio un’oncia di buon sangue / che tutta la saggezza sonnolenta»); di fronte al progresso, irrispettoso degli antichi, placidi ritmi; di fronte ai retori («La Patria? Dio? L’Umanità? Parole / che i retori t’han fatto nauseose…»); di fronte a se stesso («Ed io non voglio più essere io! / Non più l’esteta gelido, il sofista»); di fronte alla vita («Non vissi. Muto sulle mute carte / ritrassi lui, meravigliando spesso. / Non vivo. Solo, gelido, in disparte, / sorrido e guardo vivere me stesso»); di fronte alla Storia, stando “alle soglie”: «Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto, / mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo, / pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori / sovente qualcuno che picchia, che picchia…».La perplessità come ambiguità, che Paolo Mauri, fra gli esegeti più raffinati della voce «tra il Tutto e il Niente», non agognante «che la virtù del sogno: l’inconsapevolezza», ha illustrato: «La poesia di Gozzano, in apparenza semplice e cantabile, è in continuo movimento e il lettore facilmente si impiglia e si perde nel gioco del falso che si fa vero, e viceversa».A lungo sotto la campana di vetro, da troppi chierici relegato nel solaio come «le buone cose di pessimo gusto» che collezionava, Gozzano infine si ergerà a primo poetadel Novecento, venendo esaudita la sua supplica. «Pregò Dio in versi perché lo liberasse dalla lue dannunziana» osserverà Eugenio Montale, consentendo alla poesia italiana di andare oltre il Vate. In primis, allo stesso futuro Nobel, sin da I limoni, l’avvio diOssi di seppia, dove si canzonano i poeti laureati, cinti d’alloro.Montale, tra coloro che riconosceranno il debito con il Bel Guido. Come Pavese, che in lui saluterà «un gigante di stile». Pavese e Gozzano accomunati da Leone Ginzburg: «Ritengo Lavorare stanca il più bel libro di versi uscito in Italia a rivelare un poeta nuovo dopo La via del rifugio. Questo curioso Piemonte!”.Leone Ginzburg è, con Franco Antonicelli, la figura più letterata della Torino civile, a contraddire la linea che va da Piero Gobetti a Norberto Bobbio, per cui Gozzano è suono, non sostanza, un lessico famigliare, nella migliore delle ipotesi, non la lingua dell’impegno, la sentinella degli orizzonti angusti, non l’artefice del proprio destino.Sarà il gobettiano Franco Antonicelli a conciliare due mondi apparentemente inconciliabili, accogliendo Gozzano nella Torino “moderna”, annoverandolo fra coloro che lungo il Po «han fatto meraviglie, uomini avanzatissimi, sia in politica che in letteratura, nelle arti, nella scuola». Accostandolo, a proposito, ad Augusto Monti, il maieuta del liceo D’Azeglio, il “profe” di Bobbio, Mila, Pavese, che non rimpiangeva, che «amava la tradizione, il vecchio Piemonte, ma come una forza, non come un rimpianto».È l’ironia lo stiletto di Gozzano, attraverso cui si manifesta la sua coscienza critica, un’arma impropria delicata, temperata, ancorché aguzza, i «cocci innumeri di vetro sulla cima vetusta, alla difesa…» che riecheggeranno in Montale: «…una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia».Del piccolo mondo antico torinese, Gozzano è uno scrutatore sì affettuoso, ma implacabile, «tacito ed assente» al cospetto delle sue figurine, beote assai, pettegole, bigotte, «senza raggio di bellezza»… Alla città che lo «nausea grandemente» opporrà la «serenità canavesana», il dolce paese che non dico, Agliè, il “rifugio” che è il Meleto, la natura che non è leopardianamente matrigna se si potrà invocare, ascoltati: «Il profumo di glicine dissípi / l’odor di muffa…». A ciascuno la sua muffa, il suo languore… Si riprometteva, Guido Gozzano, di tornare «con altra voce poeta». Se non che, a trentatré anni, lo attrasse la Signora vestita di nulla. Una visita nel tempo annunciata da svariate avvisaglie, di perplessità in perplessità. Come avrebbe cantato il crepuscolare Avvocato di Asti, Paolo Conte: «Donna che sta entrando nella mia vita con una valigiadi perplessità…».