Corriere della Sera, 21 luglio 2023
Biografia di Raffaele Mattioli
Discutiamo di alcune importanti eredità avendo cura, quasi esclusivamente, di conoscere il destino dei patrimoni finanziari. Il resto non conta. Un’attenzione morbosa. Certo, dipende dalle vite. E dalle epoche. Raffaele Mattioli, il grande banchiere umanista – che resistette a Mussolini ma non alla voracità partitocratica della Prima Repubblica —, avrebbe potuto scegliere tra un numero infinito di lasciti. Tanto la sua esistenza era stata ricca di saggezza civile, azioni coraggiose – specie durante il fascismo – interessi culturali, visione dei destini del Paese. Ma avara – a differenza di molti contemporanei banker, inclini all’avidità dei compensi e meno al piacere della lettura – proprio della materia prima della quale si era sempre occupato professionalmente: i soldi. L’ultimo progetto, a cui teneva in maniera particolare, fu invece quello di un’Associazione per lo studio della classe dirigente nell’Italia unita. Lo pensò insieme a Brunello Vigezzi. Ne ricorda la genesi Franco Continolo nella prefazione di un libro di prossima uscita per Aragno (Sulla formazione della classe dirigente). Un’idea di Antonio Padoa-Schioppa, con la curatela di Francesca Pino.
Mattioli, che morì il 27 luglio di mezzo secolo fa, notava nell’Italia tormentata degli anni Settanta «un disorientamento di fondo». Sentiva la necessità di «prendere coscienza, se non della meta che non è possibile prefigurare, almeno del luogo da cui si proviene e del cammino percorso e di chi l’ha percorso e in quali condizioni. Un desiderio di consapevolezza». Quelle parole conservano un’attualità stringente perché rivelatrici di una debolezza di fondo dell’Italia del dopoguerra. Eppure era quello un Paese ancora inebriato dal benessere del boom economico, con una demografia positiva e una ferrea fiducia nel futuro. Migliore di quello di oggi, ancora più disorientato, nel quale però quel «desiderio di consapevolezza» è del tutto assente. Con una classe dirigente (pubblica e privata) che ci appare imparagonabile a quella dei Mattioli, dei Cuccia, dei Menichella. Se non altro per il fatto che in un’Italia più povera lessero di più e guardarono più avanti.
Quando scomparve, all’età di 78 anni, Mattioli aveva da poco lasciato la presidenza della Banca Commerciale (Comit) che di fatto aveva guidato per 40 anni. I limiti d’età li aveva abbondantemente superati. L’azionista Iri, la holding pubblica già preda dei partiti, gli negò a lungo un salvifico aumento di capitale della banca, nonostante la sua «impaziente attesa». Fu un addio amaro, non privo di rancore. Il suo posto era stato preso da Gaetano Stammati, il cui nome comparirà nella lista P2. Mattioli disse che avrebbe passato gli anni della pensione, nella quiete della sua biblioteca, a scrivere del Manzoni e a fare ordine fra i ricordi. Non ne ebbe il tempo.
Lui abruzzese di Vasto, come tanti immigrati, operai, impiegati, commercianti, divenne più milanese dei milanesi. Nonostante la vastità internazionale dei suoi rapporti («The fabolous italian banker», così lo definirono gli americani che lo vollero nel consiglio della Banca Mondiale, insieme a Rothschild e Mayer) il centro gravitazionale della sua singolare esistenza rimase racchiuso in un minuscolo rettangolo milanese. Tra piazza della Scala, sede della banca – oggi Intesa Sanpaolo —, via Bigli e via Morone dove abitò. «Midollo e tuorlo» di Milano come scrisse Gianfranco Contini. Dal suo ufficio vedeva «il capo venerando di Leonardo». L’orizzonte dei suoi interessi andava molto più in là. Era tutt’altro che un provinciale, pur nell’orgoglio delle sue origini. Oggi esiste un provincialismo più pernicioso, inconsapevole nella grettitudine di una internazionalità compiaciuta. Il suo funerale fu celebrato nella chiesa di San Fedele.
Autorevole
Era un antifascista
ma il regime non aveva potuto fare a meno della sua competenza
Giovanni Spadolini lo definì un «figlio dell’Abruzzo crociano», elogiandone la tolleranza. In realtà Mattioli non aveva un carattere facile. Alternava dotte citazioni latine a espressioni crudamente popolari che oggi sarebbero «politicamente scorrette». Secondo Ruggero Guarini il suo fu un «antifascismo di lusso». Il regime non ne poté fare a meno. Indispensabili i suoi consigli per la nascita dello stesso Iri e per la scrittura della legge bancaria del 1936 dopo il fallimento della banca mista. Eugenio Montale – che abitava in via Bigli – con la perfidia di cui era maestro, ne parlò come «un keynesiano bordeggiante a sinistra». Mattioli fece tradurre – anche grazie all’amicizia con Piero Sraffa – il Trattato della moneta dell’economista inglese. A Corrado Stajano (che gli raccomandò di mandare in Asia un certo Tiziano Terzani) confidò: «Sono un liberale con una tale dose di anarchia che mi consente di non essere necessariamente democratico e un conservatore con una tale dose di senso storico che mi consente di non essere necessariamente anticomunista». In una lunga lettera (in 33 punti) al segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti, del 1947, poco prima della caduta del governo di unità nazionale, rispondeva alla richiesta di un consiglio sulla situazione economico-finanziaria. Prima di chiedere aiuto all’estero – sosteneva – bisogna combattere l’inflazione («che impedisce di fare una cosa semplicissima, i conti») ed esercitare la sovranità come responsabilità. «Un’azione risoluta per arrestare tale processo può permettere di ottenere un aiuto senza perdita di indipendenza».
Mattioli protesse dal regime, facendoli lavorare alla Comit, tra gli altri, Giovanni Malagodi e Ugo La Malfa e dalle leggi razziali grandi intellettuali come Antonello Gerbi. La Comit, pur celebrando nelle sue relazioni annuali le conquiste dell’impero («L’Italia sta offrendo l’esempio di cui tutto il mondo ha bisogno»), restò una sorta di isola extraterritoriale, mentre nel salotto di Mattioli (Le notti di via Bigli di Riccardo Bacchelli) si radunava il meglio della cultura del Novecento e si innaffiavano i semi della Resistenza. «Mattioli ascoltava gli ospiti, specialmente gli stravaganti – scrisse Bacchelli —, con quella curiosità dall’apparenza acquiescente, e quasi neghittosa, che li incitava ed eccitava a spiegarsi in tutto l’esser loro». In via Bigli si parlava del menabò de «La Cultura», che il banchiere salvò – cui collaborarono Cecchi, Mila, Pavese e Sapegno —, ma si giocava anche a scopone.
Mattioli fu editore della Ricciardi, grazie allo sguardo di Croce e all’opera certosina di Gerbi. Rilanciò nel dopoguerra i classici. Iniziativa che non piacque a Togliatti. Le priorità erano altre. Il banchiere – che custodì i Quaderni del carcere di Gramsci – rispose che si trattava nient’altro che di cibo per la classe dirigente, pubblica e privata della quale ormai nutriva una certa diffidenza. Morendo cinquant’anni fa, si risparmiò il resto.