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 2023  luglio 21 Venerdì calendario

Intervista a Damiano Michieletto

È una fabbrica di spettacoli Damiano Michieletto, il regista italiano d’opera più richiesto al mondo. Da qui a un anno ha in cantiere ben diciannove allestimenti tra Londra e Buenos Aires, Tokyo e Parigi. «Ma non tutti nuovi. Alcuni sono riprese», precisa.
È appena tornato da Sydney, dove ha allestito iRacconti di Hoffmann di Jacques Offenbach che a novembre arriveranno anche a Venezia, a inaugurare la stagione della Fenice.
«Come tutti i registi internazionali affido le riprese ai miei assistenti, che sanno in che modo rimontarmi uno spettacolo senza smarrire la qualità delle prime rappresentazioni.
Comunque ho sempre il polso della situazione, perché se per una produzione nuova io stesso sto sul posto più d’un mese, nelle altre cercod’esserci almeno per l’ultima prova».
Una ripresa è pure ilRigolettoverdiano d’ambientazione malavitosa che l’Opera di Roma propone a Caracalla dal 3 al 10 agosto – direttore Riccardo Frizza. «Ma lo rimodellerò per uno spazio diverso da quello gigantesco del Circo Massimo per cui era stato concepito nell’estate pandemica del 2020. Di sicuro in scena ci saranno meno automobili d’allora».
Nel suo “Rigoletto” ciò che avviene sul palco viene mostrato anche su un maxischermo. Crede che la realtà che passa attraverso un video sia più potente di quella in carne e ossa?
«Non va cercata chissà quale filosofia in queste videoproiezioni live.
Consentono semplicemente al pubblico di distinguere dettagli che da lontano si perderebbero. Perché non rinnego affatto l’umanità del teatro: credo infatti che gli spazi virtuali, tipo il metaverso, non costituiscano un’opportunità per il futuro, ma solo un affare per le imprese che li sviluppano».
Offrire di ogni opera un punto di vista sempre originale è il suo marchio di fabbrica...
«La conoscenza parte dalla reinterpretazione. Ce lo insegna la storia dell’arte. Quante Madonne con il bambino, quanti Crocifissi prodotti nei secoli. Simili eppure diversi. Quel che conta è la maniera in cui un soggetto viene trattato. Lo stesso vale con testi e partiture teatrali».
Ma se la visione del regista è troppo invasiva?
«Compito del regista è ricavare da una partitura del passato uno spettacolo che funzioni nel mondo d’oggi. Il trascorrere del tempo tende a neutralizzarne la portatarivoluzionaria delle opere, a farci parere rassicurante e intoccabile ciò che in origine non lo era. Se dico, faccio “il”Don Giovanni, faccio “la”Traviata,con l’articolo determinativo fisso quell’opera in qualcosa di inamovibile».
Per questo i registi forzano la mano?
«Se avviene un corto circuito tra partiture e regie è perché i teatri programmano di continuo i soliti titoli. La soluzione sarebbe commissionare opere nuove, storie e musica del presente che lascino ilsegno del nostro tempo sul futuro».
Come “Animal farm” di Alexander Raskatov data in prima mondiale pochi mesi fa?
«Amsterdam ha accolto con entusiasmo l’idea di ricavare un’opera da Orwell. E in Raskatov abbiamo trovato un musicista sensibile, toccato dalla vicenda per via del padre perseguitato politico in Urss e del nonno imprigionato in un gulag. Tuttavia scrivere opere nuove è difficile: manca la materia prima».
Quale?
«I drammaturghi. Introvabili. Perchéchi ne avrebbe il talento preferisce sceneggiare serie tv: garantiscono più soldi, più fama».
Quindi i registi devono accontentarsi dei classici: l’anno prossimo, alla Scala si confronterà con “Medea” di Cherubini, titolo su cui aleggia l’ombra della Callas.
«Di questa eredità vocale dovrà occuparsi soprattutto il soprano. A me interessa analizzare la psicologia di una donna ferita negli affetti».
Come vedremo i “Racconti di Hoffmann” alla Fenice?
«Come la storia di un uomo,Hoffmann, che ripercorre la sua esistenza in flashback meditando sull’essenza di tre suoi amori. Il primo dal carattere infantile, che situo dentro una scuola. Il secondo maturo, spirituale, nei confronti di una donna con problemi fisici. Il terzo raffigura il disincanto da superare con la trasgressione».
Non è raro che nei suoi spettacolicompaia una scuola.
«È la casa di ogni ragazzo, dove si gioca e allo stesso tempo si trasmette il sapere».
Evidentemente ne ha ricordi belli.
«Mah, da piccolo, primi anni ‘80, la maestra mi riempiva di note e mi faceva scrivere cinquanta volte “in classe non si corre”, “non si sale sui banchi”».
Non le viene mai il dubbio che il teatro sia un luogo irrilevante?
«Aveva ragione Peter Brook quando diceva che se un teatro sciopera nessuno se ne accorge. Perciò insisto sulla commissione di opere che parlino la lingua d’oggi. Dovrebbe essere uno degli obiettivi dei nostri sovrintendenti».
Dovrebbero anche impegnarsi a far quadrare i conti, no?
«Certo. E siccome i teatri sono un bene pubblico, bisognerebbe che attuassero una politica dei prezzi che consentisse di frequentare abitualmente l’opera anche a chi non ha stipendi elevati»