La Stampa, 21 luglio 2023
Gli 80 anni di Mick Jagger
Partiamo da quella dichiarazione in bianco e nero del 1964 di faccia-da-cucciolo Mick, quando gli Stones erano appena agli inizi e il mondo del rock ancora tutto da venire: «Non so cosa farò l’anno prossimo. Magari tutto questo sarà già finito, e mi cercherò un altro mestiere» (era studente della London School of Economics, sarebbe stato comunque un eccellente manager – lo è diventato di se stesso). È uno dei tanti reperti che costellano Crossfire Hurricane di Brett Morgen, uno dei migliori rock-doc mai fatti: solo le loro voci che si raccontano senza nessun pudore guardando scorrere la loro storia fino al 1966.
Perché allora il r’n’r era così, una scommessa da vivere giorno per giorno, con leggerezza, senza troppi calcoli, con la giusta ambizione e allo stesso tempo la giusta dose di menefreghismo. In sessant’anni è cambiato tutto: il rock, o comunque lo vogliate chiamare, ha una storia solida, costellata di genialità, cialtronismo, tragedie e momenti che ci hanno cambiato in meglio la vita. Gli Stones sono ormai incisi nella pietra (rotolante) come «la più grande band di r’n’r», certificazione che si perde ormai nella notte dei tempi. Quel senso di leggerezza, menefreghismo e incertezza del futuro – che nell’arte ci deve sempre essere, altrimenti che arte è? – quasi del tutto cancellato dal big business, dalle dimensioni mastodontiche degli spettacoli dal vivo, dagli uffici stampa e promoter vere macchine da guerra. Ora l’incertezza è quanto possa durare ancora non il successo, ma la salute.
Per gli Stones, che detengono svariati record di presenze e di incasso per i loro tour, che nel tempo hanno perso tre membri fondatori (Brian Jones e Charlie Watts per decesso, Bill Wyman per ritiro), l’unica cosa che non è cambiata è la musica. Forse è un po’ cambiato il suono, ora molto più potente e pieno di allora, ma la radice è sempre quella: il vecchio caro blues nero americano. Tanto che richiesto di un parere delle due band a confronto, Paul McCartney ha recentemente dichiarato: «I Beatles si sono evoluti continuamente, loro fanno ancora adesso la stessa cosa». Modi diversi di intendere una carriera: quella degli Stones, inclusi i nuovi che si sono avvicendati (Mick Taylor, Ron Wood) è rimasta fedele alle radici, a quell’idea di dodici battute succhiata da Chuck Berry e Muddy Waters come il latte dalla mamma, sulla quale infinite variazioni ci han lasciato un canzoniere sconfinato, album monumentali, e almeno due periodi (a cavallo dei 70, e poi a cavallo degli 80) in cui han fatto una musica da leccarsi i baffi.
Mick non ha più quella faccia innocente e maliziosa: il suo volto è scavato dal tempo come i preistorici canyon americani dall’acqua. Penso alla Magnani: «Perché dovrei cancellare le mie rughe? Ognuna è un ricordo», e infatti Mick sul palco se le porta tutte. Sono la sua medaglia d’onore, la certificazione di autenticità. Ha scritto testi che son diventati gergo moderno (da Satisfaction in poi), è passato attraverso matrimoni e divorzi, figli legittimi e non, dischi trionfali con la band e malaccolti da solo, accuse di simpatia per il diavolo (diciamo che questa se l’è cercata) e per qualsiasi droga sul pianeta; abbiamo notizie dalla bio dell’altro Stone originale e partner musicale per la vita, Keith Richards, che il mojo è piccolo ma evidentemente funziona bene perché con la compagna Melanie (quarantaquattro anni più giovane) ha una figlia di sette anni.
Ha frequentato Re e principesse come musicisti di strada e bassifondi, la sua vita privata, se solo la scrivesse (ma non ha mai voluto e l’unica volta che lo han convinto l’ha poi ritirata), sarebbe sicuramente la “biografia del secolo” per tutto quello che ha vissuto. Sul palco, è una sorta di miracolo della natura, ancora detentore alla sua età di medaglia olimpica (se solo ci fossero) della maratona-con-canto della sua generazione (e non solo). Non viene generalmente più citato come frontman supremo, ma per me è solo fuori categoria: quel modo di suonare l’armonica, quelle mossette col piede che batte apprese da Tina Turner e quello scivolare rubato a James Brown settant’anni fa, quel suo buffo modo di agitare le mani facendo cento segni diversi, quelle boccacce e gli sculettamenti, quel saper scendere fino in fondo a una ballata come di urlare, e far urlare una platea, uno stadio, un Circo Massimo sono fantastiche. Trovane un altro.
«Il r’n’r, in verità qualsiasi forma di pop music, non andrebbe fatta quando sei nei tuoi settanta», ha dichiarato l’anno scorso al Sunday Times, «Non era stato pensato per quello. Fare qualsiasi cosa ad alta energia a quest’età è veramente portare le cose all’estremo. Ma questo lo rende ancora più una sfida. Per cui è “Ok, dobbiamo farlo al meglio”, ma deve essere carico il più possibile. Oppure, potremmo anche fare un altro tipo di musica, abbiamo anche tante ballate. Potrei star seduto su una sedia». E invece… Quando arrivano i tour si prepara per mesi, «Tutti i giorni palestra e danza. Non mi piace molto, ma va fatto». Certo, l’ipertiroidismo che lo rende magro come un chiodo sotto quel capoccione pieno di capelli ben tinti aiuta, mettiamoci anche mangiare e vivere sano, ma quando pensate a un professionista serio – non uno sportivo che in 10 o 15 anni ha già finito la carriera- pensate a Mick Jagger. Non esattamente l’ottantenne che ti aspetti. —