La Stampa, 21 luglio 2023
Kissinger, l’immortale
I cinesi sanno corteggiare il passato e piegarlo all’occorrenza e così il tappeto rosso srotolato sotto i piedi di Henry Kissinger, 100 anni, quella frase che Xi Jinping gli tributa – «il popolo cinese ti ricorderà sempre» – e il luogo dell’incontro, la Villa numero 5 della Diaoyutai Guest House, lo stesso edificio dove oltre 50 anni fa l’inviato americano fu ricevuto dal premier Zhou Enlai, sono ben più di un riconoscimento per il segretario di Stato che riaprì i legami con la Repubblica popolare cinese ai tempi di Mao e spianò la strada allo storico viaggio di Nixon nel febbraio del 1972. Sono un messaggio inviato al mondo e ai signori che comandano oggi a Washington. Imparate da quest’uomo, «il nostro vecchio amico».
C’è l’essenza della Realpolitik nella missione in terra cinese del suo più alto profeta che trova proprio nella Pechino di Xi Jinping, demolitore del cammino riformista avviato da Deng Xiaoping e portato avanti da Jiang Zemin e Hu Jintao, e piuttosto alfiere invece di un nazionalismo vigoroso e pernicioso, il partner perfetto, orecchie attente e linguaggio felpato.
Fra le migliaia di studenti e analisti, di diplomatici e di politici che si abbeverano al pensiero di Henry Kissinger, consumano il suo “Diplomacy” del 1994 o il tomo “On China” del 2011 quelli che potrebbero aver capito meglio di tutti le dinamiche globali e provano ad applicarne le categorie della Realpolitik, sono Xi Jinping e la sua corte di ministri.
Perché semplicemente Xi non schifa l’idea di trattare i rapporti fra Stati per quel che sono, nugolo di interessi che si intrecciano e talvolta di inquinano, considera l’equilibrio di poteri e la non ingerenza i pilastri su cui si agita la scacchiera mondiale. Pragmatismo che si smarrisce e si trasmuta in nazionalismo quando si ricurva nella dimensione domestica, ma che mantiene invece una purezza inquietante quando varca i confini.
La guerra in Ucraina ne è l’esempio più fulgido, ed è singolare ma non stupefacente, come le visioni di Xi e quelle di Kissinger coincidano. Temendo entrambi per la stabilità e la tenuta di un equilibrio che si stava affermando lungo l’asse Usa-Cina.
Nella visione di Kissinger c’è pure il concetto di eccezionalismo ad avvicinare per poi allontanare subito le due super potenze.
Se per gli Usa l’eccezionalismo è la manifestazione di un destino, un primato morale da esportare sotto forma di valori e idee nel mondo, quello cinese è culturale – ricorda l’ex segretario di Stato in “On China” – un arroccamento sui propri tratti distintivi senza pretesa di trasferirli fuori dai confini ma con la convinzione che i Paesi si giudichino in base al grado di vicinanza con il pivot di Pechino. Ed è all’interno di schema realismo-eccezionalismo che Kissinger imposta la sua visione delle relazioni sino-americane. Che si esemplifica magnificamente nella sua valutazione sui fatti di piazza Tiananmen del 4 giugno 1989, quando “rimasi scioccato come tutti a vedere come era finita”, ma “a differenza di molti americani ebbi l’opportunità di vedere lo sforzo di Ercole che Deng aveva intrapreso per rimodellare il Paese”. E soprattutto ai tempi Kissinger aveva toccato di prima mano quanto Deng “si era speso per migliorare le relazioni bilaterali”.
Cina e Stati Uniti sono destinate a misurarsi, piacersi, odiarsi, sfidarsi, magari anche manu militari, ma senza abbattersi. Come in un equilibrio precario si sorreggono. Perché anche la Cina agli occhi del segretario di Stato che spiegò il mondo a Nixon, astuto e spietato capace di esaltarsi per la stretta con Mao così da distogliere l’America dalla debacle in Vietnam, è decisiva per la pace e la stabilità mondiale. “Le relazioni fra Usa e Pechino sono di importanza cruciale per il mondo”, ha detto infatti il grande vecchio della diplomazia Usa.
È toccato al più alto diplomatico cinese, Wang Yi sussurrare a Kissinger la frase più forte, riprendendo dal cassetto della storia la parola “contenimento” e avvertire l’America che “è impossibile circondare o contenere la Cina”. Crescerà il Paese, si espanderà ed estenderà come vuole e senza quella morsa che Biden gli sta costruendo intorno, alleanza militare con Giappone e Filippine, i sommergibili nucleari all’Australia, il sostegno all’India, la deterrenza nucleare rafforzata con la Sud Corea.
Il Dipartimento di Stato ribadisce che Kissinger non è in missione per conto dell’Amministrazione, ma gli analisti che stanno nel palazzone di Foggy Bottom, una chiacchierata con l’antico inquilino del settimo piano la faranno quando rientrerà in patria per coglierne impressioni, sfumature, idee da questa missione.
Accogliendo Kissinger come un «vecchio amico», Xi altro non ha fatto che cercare di enfatizzare da buon realista la cooperazione e il mutuo rispetto fra potenze. E il centenario faro della politica estera Usa è ad ora l’ultimo di una schiera di big che la Cina può vantare di aver ricevuto di recente: Bill Gates, Steve Cook, Elon Musk, il gotha del business e dell’hi-tech Usa al cospetto dell’erede di Mao in un tentativo – ha notato sul New York Times Dennis Wilder, ex capo del desk Cina alla CIA – «di cambiare l’opinione a Washington». Il realista Xi ha imparato la lezione dell’immortale Henry Kissinger.