La Stampa, 21 luglio 2023
Draghi, un anno dopo
Mario Draghi è appena rientrato dagli Stati Uniti. Laggiù è dove si sente a casa, dove è andato per tenere i suoi unici due discorsi pubblici, da quando ha lasciato la presidenza del Consiglio. Ha parlato prima al Mit di Boston, a inizio giugno. Poi, una settimana fa, alla Martin Feldstein Lecture al National Bureau of Economic Reaserach, a Cambridge. Sono i luoghi della sua formazione, le accademie del Massachusets, il Mit specialmente, la sua “alma mater”. Luoghi di frequentazione intellettuale, di confronti tra economisti, dove è libero di sperimentare un orizzonte di pensiero un po’ più lungo rispetto alla mischia della politica italiana. Gli esegeti del draghismo fanno osservare un paio di cose e un dettaglio che forse non è tale.
Questi sono i discorsi più politici di Mario Draghi, discorsi in cui si gira attorno soprattutto a un tema: il futuro dell’Europa. Il banchiere centrale diventato presidente del Consiglio per un anno e mezzo, nel pieno di una pandemia, parla dello stato dell’Unione europea dall’altra parte dell’oceano, lontano dal Vecchio Continente. Chi lo conosce e lo frequenta, dice che Draghi non fa nulla, o quasi nulla, per caso. Ogni scelta è calcolata, ha una sua scenografia, ha una sua tempistica, ha una sua proiezione. Mette una netta distanza geografica per proporre di realizzare finalmente l’integrazione dell’Ue, evidenziando la differenza di reazione degli Stati Uniti agli choc ciclici. Bisogna cogliere l’occasione della guerra in Ucraina – dice – e dell’allargamento dell’Unione ai Balcani e a Kiev, dei nuovi approvvigionamenti energetici, della sfida del clima, per ripensare le regole fiscali e riaprire i Trattati, reimpostandoli su presupposti politici, e non più solo tecnocratici. E lo sostiene proprio lui, tecnocrate prestato alla politica che la politica ha sbattuto fuori il 21 luglio di un anno fa. In un gioco di contrasti, l’ex presidente della Banca centrale europea sceglie di difendere le potenzialità della moneta unica in un discorso in memoria di un economista, Feldstein, che aveva dato per spacciato il progetto dell’euro dopo un anno.
Non è un banale omaggio, però, o una dotta disquisizione in un simposio di economisti. Quello a Cambridge è apparso a tanti un discorso programmatico. Il dettaglio che insaporisce questa considerazione è un passaggio, al termine del discorso. Draghi prende una sola domanda dal pubblico. Nel video si sente solo il nome, Jason. Dovrebbe essere Jason Furman, ex capo dei consiglieri economici di Barack Obama alla Casa Bianca. Gli chiede della riforma del Patto di Stabilità, dei dubbi, eterni, della Germania sull’Italia, sulla sua incapacità di compiere le riforme, di spendere i fondi europei, di ridurre il debito. Draghi alza lo sguardo su tutta l’Unione, in due minuti sintetizza la sua personale idea di Stati Uniti d’Europa che ha tratteggiato per oltre quaranta minuti di intervento. Una delle fonti che abbiamo contattato la definisce «quasi un’autocandidatura». Come se parlasse da presidente del Consiglio europeo. Perché, poi, alla fine, la domanda resta sempre la stessa: cosa farà Mario Draghi? Di certo non si autocandiderà a nulla, il che non vuol dire che non è candidato a qualcosa.
Più o meno sappiamo cosa ha fatto in questi trecentosessantacinque giorni dopo il discorso in Senato, la caduta e le dimissioni «irrevocabili». Sappiamo che ha centellinato le apparizioni pubbliche, che è stato ai funerali di Silvio Berlusconi e della moglie di Romano Prodi, alla presentazione del libro del vignettista Emilio Giannelli, alle considerazioni finali della Banca d’Italia. Sappiamo che è stato invitato a tenere conferenze a porte chiuse, e che qualcuna è stata scoperta dalla stampa, qualcun’altra no. Sappiamo che il 22 giugno a Parigi era l’ospite d’onore del World Investment Forum di Amundi, colosso francese del risparmio gestito. Sappiamo che in primavera gli è stata offerta la guida della Nato e lui ha detto: «No, grazie». Sappiamo che Elon Musk, di passaggio in Italia a metà giugno, ha chiesto di vederlo, dopo aver incontrato Giorgia Meloni, che si sono visti, sono stati paparazzati, e che hanno parlato di come funziona l’Europa, delle possibilità di investimento, dei limiti del mercato europeo che stanno stretti a Mr. Tesla, come gli stanno stretti, ora che è anche diventato il padrone di Twitter, i blocchi sull’hate speech. Sappiamo che ha studiato e ha lavorato tanto su due ossessioni: l’Europa, stravolta dalla guerra di Vladimir Putin, e l’inflazione. Sappiamo che ha letto in bozza il libro “Leader per forza” del suo ex capo di gabinetto Antonio Funiciello, in cui si parla tanto di lui e dei mesi passati a Palazzo Chigi. Sappiamo che è andato spesso a cena fuori e che agli inizi di luglio era all’Osteria la Gensola, noto ristorante di Trastevere, e che il giorno dopo sempre lì era a cena il suo ex braccio destro a Palazzo Chigi, Roberto Garofoli. Sappiamo che ha continuato a tenere pranzi di lavoro, incontrare gente, curare le relazioni e la sua rete internazionale. Sappiamo che si è interessato a qualcuna delle grandi nomine di Stato. Sappiamo che non voleva si sapesse del suo colloquio al Quirinale con Sergio Mattarella, a marzo, mentre il governo italiano si trascinava in esasperanti trattative con Bruxelles sul Piano nazionale di ripresa e resilienza. Sappiamo che non gli ha fatto piacere come il governo Meloni abbia scaricato su di lui le difficoltà a realizzare il Pnrr. Questo è quello che sappiamo dalle chiacchierate con ex collaboratori e amici. Quello che non sappiamo ma ci viene lasciato intuire è un sentimento di indignazione per come la destra sta trattando i soldi e i progetti del Next Generation Eu. Interi capitoli cancellati o modificati, sulle donne, sul Sud, sulla riforma della concorrenza come elemento fondante.
C’è stato un momento in cui si parlava della special relationship tra Meloni e il suo predecessore. Per i primi mesi del nuovo governo nato lo scorso fine ottobre il telefono rosso tra i due ha squillato. Era la premier che chiamava «Mario», per avere qualche consiglio, per chiedere una mano tra i suoi contatti. La nomina di Fabio Panetta alla Banca d’Italia ha ricevuto sicuramente un suo endorsment, come non è impensabile che il ministro dell’Economia e amico Giancarlo Giorgetti lo abbia coinvolto sulle delicate partite europee della candidatura italiana alla Bei e del futuro rappresentante dell’Italia nel board Bce. La frattura con il governo si è consumata quando la paura del fallimento e le pressioni pubbliche hanno spinto i ministri di Fratelli d’Italia e poi anche Meloni a puntare il dito, ripetutamente, contro l’impianto e la governance del piano immaginati dall’ex premier Giuseppe Conte, poi rivisti da Draghi. La reputazione e la credibilità sono due virtù che l’ex presidente della Bce considera intoccabili, l’angolatura che dà più profondità al suo ritratto. Niente è più importante, sostiene, come valore politico ed economico. A Cambridge, a conclusione del discorso americano di cinque giorni fa, Draghi ha detto che l’Italia «deve dimostrare di poter spendere le risorse del Pnrr secondo i tempi, con efficienza e con integrità». Si intravede, malcelato, un giudizio negativo su chi ora ha il potere di salvare o di affossare il Piano.
È forse l’unica volta in cui si è lasciato andare a un’annotazione critica pubblicamente. Altre volte ha fatto arrivare ai giornali le sue precisazioni. C’è un dato psicologico che ci offre un ex collaboratore che ha lavorato al suo fianco ogni giorno e che a suo dire spiega perché Draghi parli più all’estero che in Italia. Non è solo perché si rimmerge nella sua dimensione internazionale, ma anche perché fuori dai confini ritrova quell’amore, quella stima intellettuale e quel calore che in Italia non sente. Per questo, il suo ritirarsi è una strategia. Per questo, le aspettative su di lui diventano un’attesa.
Quando, nel corso di questi mesi, gli sono andati a chiedere se fosse vero che sarebbe finito alla Banca mondiale, o che aveva ricevuto un’offerta milionaria dal fondo Blackrock, Draghi ha seccamente smentito tutto. A quasi 76 anni, l’ex premier continua a dire che un lavoro è capace di trovarselo da solo e che non è interessato alle nomine per i massimi vertici europei, Consiglio e Commissione. Anche perché l’ex presidente della Bce non è un ingenuo, sa che si tratta di nomine politiche, che si reggono su particolari equilibri e che la sua è una figura ingombrante come quella dell’ex cancelliera Angela Merkel. Ma sa anche che il presidente francese Emmanuel Macron lo adora e potrebbe spendere il suo nome. C’è comunque un fatto che segna una novità nella nuova vita di Draghi, ed è quello da cui siamo partiti: in poco più di un mese ha tenuto due discorsi (tre, se si somma l’intervento a Parigi) potentemente politici sulla costruzione dell’Europa. E poi c’è un’omissione, voluta, sull’unica carica a cui, a dire di tutti, sarebbe realmente interessato, a cui non ha fatto nulla per evitare di sembrare interessato, quando gli sfuggì nel gennaio 2022, l’unica a cui in qualche modo la sua suonò – quella volta sì – come un’autocandidatura: il Quirinale. —