La Stampa, 20 luglio 2023
Le corrispondenze di Pynchon
Non chiamatemi narratore. «Surrealista, pornografo, ingegnere di parole, forse. Narratore no». Usa il termine novelist, Thomas Pynchon, in una lettera indirizzata all’inizio degli anni Sessanta a Faith Apfelbaum, amica dei tempi del college e poi editor intelligente della sua prosa labirintica e allusiva. Sul foglio quadrettato, tra le parole battute a macchina, la confessione-sfogo brilla come una mina. Novelist, letteralmente, si traduce come romanziere. Ma spesso il senso esteso è quello di scrittore compiuto, capace di narrare storie. Come Herman Melville, come Ernest Hemingway, come Francis Scott Fitzgerald (in una mascherata universitaria, pochi anni prima della lettera, Pynchon aveva interpretato Fitzgerald, suo primo idolo letterario, mentre l’amico Richard Farina era travestito da Hemingway).
L’affermazione suona curiosa in quello che è oggi uno dei più celebrati scrittori americani contemporanei: il suo Arcobaleno della gravità contende proprio al Grande Gatsby di Fitzgerald il primato per il grande romanzo americano. Il giovane Pynchon, che all’epoca della lettera aveva appena terminato V., il suo romanzo d’esordio, era tanto cosciente della qualità della propria scrittura da rifiutare ogni correzione e perfino discussione con il suo editore, J. B. Lippincott, che, a sua volta, era intimorito dalla giovane promessa. «Hai ragione riguardo a quella "mancanza di… suspense… qualcosa che spinga il lettore ad andare avanti, a parte il puro interesse per il prossimo tour de force". Vorrei che non l’avessi».
L’autore di V. è già celebrato dalla critica ufficiale. Ma risponde all’appunto privato dell’amica con sincerità e preoccupazione. «Mi sembra che quella che tu chiami "impossibilità a metterlo giù" (il libro, ndr), difficile da specificare o isolare, sia basilare alla buona scrittura di romanzi, verdad? Almeno all’unico tipo di romanzi che vale la pena, per esempio, quello della tradizione realistica. Che è ciò che un giorno vorrei essere capace di scrivere», si rammarica Pynchon dal Messico, uno dei suoi tanti nascondigli dalla crescente fama. Le fughe surrealiste che adotta in V. gli paiono una gruccia a cui appoggia la scrittura. Diventeranno, migliorate e accresciute, la sua cifra letteraria. «La triste verità è che non sono tecnicamente capace di creare una qualche suspense (insieme ad altri elementi tradizionali) e fino a quando non ci riesco non ha senso per chiunque, me incluso, chiamarmi narratore». La lettera fa parte di una corrispondenza, in gran parte inedita, anche se aperta alla consultazione degli studiosi, tra l’autore dell’Incanto del lotto 49 e una coppia di amici conosciuti alla Cornell University, John Kirkpatrick Sale e Faith Apfelbaum. Il primo diventerà un leader radicale del movimento studentesco e un profeta del neo luddismo: nel 1958 guida una delle prime manifestazione di protesta, a cui partecipa anche Pynchon, contro la politica dell’università di separazione o stretta sorveglianza dei sessi, una specie di mondo inverso rispetto alla sexual correctness nei campus dei nostri giorni. Faith sarà la editor di scrittori famosi: oltre a Pynchon, Kurt Vonnegut, Joseph Heller e Amy Tan. I due si sposano nel 1958 dopo la laurea e partono per il Ghana, dove l’amico Tom progetta di raggiungerli, forse per completare il progetto di un musical, Minstrel Island, scritto a quattro mani con Sale. Il carteggio è oggi conservato all’Harry Ransom Center dell’Università di Austin, in Texas, dove sono anche i dattiloscritti di V., Vineland, le bozze di Minstrel Island, e altra corrispondenza più intima, questa sotto chiave fin quando lo scrittore sarà in vita.
Le lettere a Sale hanno un curioso andamento pynchoniano. Delle fotografie dei dattiloscritti sono recentemente affiorate sul web, poi rimosse. Alcuni brevi stralci sono stati inseriti in pubblicazioni specialistiche. Si sente come un eco letterario delle misteriose edizioni piratate che appaiono nelle trame dello scrittore, e delle sue citazioni apocrife. La Stampa ha potuto leggere diverse lettere della corrispondenza, tra il 1962 e il 1964. Da queste esce un autoritratto dello scrittore da giovane, tra orgoglio ed esercizi di umiltà, esperimenti, aneddoti, prime passioni letterarie. «Mi è venuta una specie di fissa per Borges» si entusiasma Pynchon in una lettera del 1963. Più che un’ispirazione è un riconoscersi. Legge Finzioni: in particolare è affascinato dai racconti Tlon, Uqbar, Orbis Tertius. «La storia mi è rimasta dentro perché non sono riuscito a capire se si tratta di una finzione o no». Pynchon si chiede anche se Adolfo Bioy Casares - lo scrittore argentino amico di Borges che compare come personaggio nel racconto – sia reale. «Questa ambiguità è quello che più mi piace in Borges» scrive Pynchon mentre approccia la lettura de L’Aleph. L’ammirazione dello scrittore postmoderno per Borges è nota. Nell’Arcobaleno della gravità un personaggio minore, Graciela Imago Portales, amica dei letterati di Buenos Aires, è modellata sulla Beatriz Viterbo de L’Aleph. Pynchon aggiunge dei versi da una poesia apocrifa a lei dedicata, squisitamente borgesiani: «El laberinto de tu incertidumbre/me trama con la disquietante luna». Molti si sono affannati a cercarli nell’opera poetica di Borges, senza successo.
È poi il tema del labirinto a intrigare Thomas Pynchon . Affascinato dalla parabola dei due re, il babilonese e l’arabo, e dal confronto tra il labirinto, invenzione dell’uomo, e il più terribile deserto, creato da Dio, arriva ad elaborare una singolare teoria: «Il paesaggio porta i sensibili scrittori argentini a compensare il vuoto riempendolo di tane di conigli e labirinti». Sorprende piuttosto, nella stessa corrispondenza, l’accostamento tra la dichiarazione d’amore al fantastico erudito di Borges e il complesso d’inferiorità rispetto al romanzo realistico. Ma forse è proprio in questo paradosso creativo che sta la soluzione. Si è parlato, da parte della critica, dello stile massimalista di Pynchon come un continuo oscillamento tra parodia e mistero, delle allusioni continue e dell’integrazione di fonti diverse come i manuali tecnici e i fumetti (nel carteggio ci sono tre storie reinventate dalla striscia di fantascienza umoristica del personaggio Ferdinand Feghoot). Più importante ancora la contaminazione tra realtà e finzione, già notata nel racconto di Borges, fino a rendere il confine tra le due indistinguibile, una sorta di spazio quantistico pynchoniano, una luminescente "schiuma" letteraria. Questa dimensione espansa include anche la vita del più elusivo degli scrittori americani, non abbastanza eclissata dalle migliaia di pagine scritte quanto vorrebbe l’autore post-moderno. Così nelle lettere ritroviamo un riferimento al famoso "incidente" di Città del Messico, quando scappò, secondo la leggenda qui in parte confermata, dalla finestra di un bagno per sottrarsi a un reporter. E poi l’ossessione per la segretezza degli indirizzi: «Per favore, per favore, aiutatemi a restare nascosto», scrive agli amici. «Non dite nulla, o meglio, dite che sono lontano, del tipo che sono un Negro che vive a Ft. Wayne con la nonna somministrandole narcotici e lavora nella vendita di accessori d’auto. E molto grasso, anche se mi sostento solo con saki (sic, per sake, ndr) e cavoletti di Bruxelles». La biografia comincia a nascondersi nel labirinto. Un filo per orientarsi potrebbe essere trovato nel vasto archivio che lo scrittore ha venduto lo scorso dicembre alla Huntington Library californiana. Per ora sorvegliato alla stregua di un segreto di Stato. Magari nei travestimenti e nelle beffe che risalgono agli anni universitari. Come quando, con gli amici Farina e Sale, mise in scena un finto duello in stile ottocentesco, pubblicato sul giornale studentesco. O – e qui entriamo nel mito – quando venne riconosciuto in una libreria nonostante la parrucca e i baffi finti. E tornò, nella stessa libreria, travestito da donna. Come diceva lo stesso Pynchon a proposito di Borges, diventa difficile distinguere tra realtà e finzione. E forse è proprio quello che lo scrittore ha sempre desiderato rendendo la sua vita per frammenti, come parte della sua opera. Conclude così una delle lettere a John e Faith: «Uno dei vantaggi di essere un recluso è che si possono fare i propri piani e, con l’eccezione di guerre e disastri naturali, agire in accordo ad essi».