La Stampa, 20 luglio 2023
La grande fuga dalle metropoli americane
Uwe viene da Monaco di Baviera e lavora per una società la cui casa madre sta nella Bay Area, la grande culla dell’hi-tech e della cultura alternativa che si muove fra San Francisco, San José e Oakland. È arrivato con la famiglia quasi due anni fa, in tempo per afferrare la coda della pandemia e le restrizioni per la variante Omicron. Vive a 50 minuti di treno dal cuore di San Francisco e da quando è sbarcato sulla West Coast l’ufficio l’ha visto più tramite un collegamento Zoom che dal vivo. La sua è una storia tutt’altro che insolita e dall’altra parte d’America, a Washington, Dario, analista del German Marshall Fund, vive una situazione analoga: anziché nel cuore di DC, ora vive a South Arlington, sobborgo in Virginia. Con quanto risparmia di affitto si può permettere di prendere Uber più volte a settimana per andare in ufficio. Dove comunque domina lo smart working e quindi la sua presenza non è obbligatoria e ora fa parte della schiera, maggioritaria, dei "suburban" quelli che vivono nei quartieri che circondano le grandi città.
Nell’America uscita dalla pandemia con l’inflazione fuori controllo da 18 mesi, i prezzi degli immobili – affitto e vendite – schizzati in alto e i mutui spinti dai tassi d’interesse al 5,25, giovani e famiglie hanno abbandonato le città e riscoperto sobborghi e zone rurali.
La "fuga dalle metropoli" del 2021 è stata lievemente attenuata con i dati dell’ultimo rapporto Census del 2022, ma il trend sembra tracciato. Tanto che William H. Frey, della Brookings Institution, sostiene che, anche se l’effetto pandemia sta evaporando «le conseguenze, fra cui soprattutto la possibilità per molti professionisti di lavorare da casa, si faranno sentire ancora per un po’», tanto che «il ritorno nelle città per molti sarà assolutamente evitabile». Ed è una sfida che diversi sindaci stanno affrontando.
Muriel Bowser, prima cittadini di Washington all’inizio dell’anno ha lanciato il comeback plan con l’obiettivo di costruire 9400 nuove case per 15mila persone entro il 2028 per attrarre nuovi residenti. La metropolitana è tornata a sferragliare su ritmi ante-pandemia anche se la capienza non è quella d’un tempo, l’obiettivo è portare gli abitanti del District a 725mila entro il 2028 dai 671mila attuali. Il sogno è raggiungere quota 1 milione nel 2045.
Però la capitale federale nel 2021 ha perso 20mila residenti, non è l’unica grande città a perdere abitanti. Nel 2021 il saldo era negativo per San Francisco, New York, Boston, St. Louis e Atlanta. Nessuna si è ripresa lo scorso anno anche se l’emorragia si è fermata.
Los Angeles resta la contea più estesa e popolosa d’America, ma lo scorso anno la metropoli ha perso 90mila persone. Se aggreghiamo le dieci aree metropolitane più grandi d’America, in due anni hanno visto evaporare quasi un milione di persone. Frey ha osservato due cose: la prima è che c’è stata una diminuzione della popolazione nelle 88 città con più di 250mila abitanti. La seconda è che la pandemia ha accelerato, in maniera devastante, un trend già in atto da qualche parte a causa del mercato immobiliare impazzito che rende un’impresa affittare o comprare casa nel cuore delle città americane.
Un terzo elemento è la migrazione interna: San Francisco e New York hanno un saldo negativo, insieme a Los Angeles e partendo dal 2018, il numero di americani che ha cercato casa in quelle aree è sceso del 50%.
Nella sola San Francisco il 2022 ha visto un decremento dell’immigrazione interna del 7%. Qui la situazione sembra più complessa - «compromessa», dice Marc Benioff, chief executive di Salesforce - che in altre metropoli. Alla Associated Press Jack Mogannam gestore del Sam’s Cable Car Lounge ha raccontato che il business è calato del 30%, le ore di apertura del locale sono state ridotto. «Una volta alle dieci di sera era pieno, c’era la fila in strada, sembrava un party. Ora facciamo fatica a contare sei pedoni».
La migrazione interna sta premiando le città del Sud e il Texas, l’economia florida, una bassa tassazione e scuole di buon livello, hanno contribuito a far sbarcare fra Forth Worth e Austin, fra Georgetown e Kyle in Tennessee migliaia di persone. Le ricette per rivitalizzare i centri sono diverse, le autorità cittadine sono convinte che il rilancio dell’economia e la fine delle restrizioni riempiranno di nuovo gli uffici, generare l’indotto tradizionale e allontanare homeless e criminalità.
Ma diversi analisti la pensano invece come Frey. Richard Florida esperto di urbanistica all’Università di Toronto, ha analizzato usando i volumi e le celle del traffico telefonico, la vitalità di 63 centri cittadini, i cosiddetti downtown americani. Il saldo è negativo in 59 città statunitensi, Cleveland e Portland (Oregon) fanno compagnia in fondo alla lista a San Francisco. Dove pure altri numeri sembrano decretare la morte del centro: gli incassi dell’hotel sono al 73% dei livelli pre-pandemia, gli uffici pieni per il 50% e i treni dei pendolari viaggiano spesso vuoti.
La conversione dei palazzi, ora destinati agli uffici ma spesso vuoti, in abitazioni è una strada che alcune città hanno imboccato in passato con successo: è il caso di Baltimora e di Salt Lake City. A New York ci sono generosi sgravi fiscali per i costruttori per facilitano la conversione degli spazi. Altrove la strada sembra più complessa. A San Josè ha aperto un negozio di lusso per abiti da uomo. Fino a poco tempo fa languiva nel cuore di San Francisco. Qui è rinato. Potere dei sobborghi.