Corriere della Sera, 20 luglio 2023
Sul voto in Spagna
Il voto di domenica è importante non solo perché la Spagna è un grande Paese, la nostra sorella latina. È importante perché lo schema che potrebbe uscire vincente dalle urne è, o appare, quello di Giorgia Meloni: l’alleanza tra popolari e conservatori. E in effetti è molto probabile che il centrodestra prevalga. Ma sarà un’alleanza difficile. Le cui chiavi non sono nelle mani dell’uomo della Meloni, Santiago Abascal – che la premier nel messaggio augurale chiama confidenzialmente Santi —, ma in quelle del probabile prossimo capo del governo: un moderato, un centrista, un democristiano come Alberto Núñez Feijóo.
Feijóo è lo storico presidente della Galizia, la regione dove si sono formati tutti i capi della destra spagnola del Novecento. A cominciare da Francisco Franco, gallego di Ferrol, che ora non si chiama più Ferrol del Caudillo, e dove la sua statua equestre è stata rimossa dalla piazza principale per essere prudentemente custodita nell’arsenale. Galiziani erano pure Manuel Fraga Iribarne, ministro di Franco e fondatore del partito popolare, e Mariano Rajoy, l’ultimo premier di centrodestra. Uomini prudenti e, se necessario, feroci. Neppure Feijóo è un tipo espansivo; ma non è un estremista. Dovendo decidere se inseguire i radicali di Vox o conquistare il centro, i popolari hanno scelto la seconda opzione. Anche se di Vox avranno bisogno per governare.
N eppure «Santi» Abascal è un franchista. È un anti-antifranchista. Per lui falangisti e rossi pari sono: «La sinistra vuole riaprire le ferite del passato, noi vogliamo chiuderle». La storia che lo interessa è quella della Reconquista contro i mori, dei Re Cattolici, dei Conquistadores che costruirono l’impero spagnolo in America. Teorizza l’Iberosfera: è contro l’immigrazione, tranne i cubani anticastristi e i venezuelani che odiano Maduro. È contro la «dittatura progressista» e per una «destra senza complessi». Il suo non è un voto nostalgico, ma giovane, urbano, social, reazionario. È l’espressione spagnola di quello che il grande scrittore Javier Cercas definisce «il nazionalpopulismo» che si manifesta in tutta Europa. In effetti Vox ha esponenti caricaturali, tipo il neovicepresidente della Comunità di Valencia, Vicente Barrera, ex torero che ha chiamato il suo cavallo Caudillo. Nei sondaggi è attorno al 13%, poco più di un terzo dei popolari.
Un’alleanza di cui Feijóo non è entusiasta. Non a caso, nell’unico duello con il premier Pedro Sánchez ha proposto di fatto una grande coalizione: se il leader socialista è così scandalizzato da Vox, si impegni ad astenersi in Parlamento nel caso di vittoria dei popolari; e i popolari faranno il contrario nel caso di vittoria socialista. Una mossa ben giocata. Ma anche una trappola in cui Sánchez ovviamente non è caduto: avrebbe contraddetto tutta la sua storia.
Quando i socialisti decisero appunto di astenersi per far nascere il governo Rajoy, Sánchez si dimise da deputato. Cominciò a girare la Spagna con la sua macchina, per risvegliare l’orgoglio dei militanti del Psoe (Partito socialista operaio spagnolo: si pronuncia Pesoe, o soltanto Soe). Batté clamorosamente alle primarie la presidenta andalusa Susana Díaz, appoggiata da Felipe González e dai dinosauri della nomenklatura, tornò leader del partito, presentò una mozione di censura contro Rajoy, la vinse, divenne presidente del governo e ottenne la maggioranza relativa in due elezioni di fila. L’economia spagnola non va male, l’occupazione è al massimo storico, i due polmoni della crescita economica – il turismo e l’edilizia – sono ripartiti, l’inflazione è più bassa che in Italia, la linea atlantista sull’Ucraina è rimasta ferma.
Allora, perché? Perché un leader di valore, dinamico, pure bello come Sánchez rischia di perdere nettamente le elezioni?
Un po’ è il vento di destra che spazza l’Europa. Un po’ è la reazione della Spagna profonda alla sua battaglia per il femminismo e contro la violenza di genere, che ha indispettito in particolare i giovani maschi che guardano a Vox. Un po’ è la bolla di malumore che avvolge il Paese. Sánchez ha governato per cinque anni avendo Madrid all’opposizione, con tutto quello che la capitale rappresenta: magistratura, burocrazia, finanza, media. E ha governato con l’appoggio dei separatisti catalani, che ha liberato dalle galere. Una mossa che ha stemperato la tensione, ma non gli è stata perdonata dalla maggioranza degli spagnoli.
Ora popolari e conservatori hanno bisogno di 176 seggi, la maggioranza assoluta. Se non ce la fanno, stringere accordi con catalani e baschi sarà durissima. Abascal è basco, ma spagnolista: odia gli eredi politici dell’Eta, e ne è odiato. E Vox è cresciuta anche sull’onda del rifiuto della secessione catalana. Dal canto suo, il moderato Feijóo ha riconosciuto che «il partito popolare a Barcellona ha commesso degli errori». Con i manganelli non si fa politica.
Tutto indica che Feijóo preferirebbe davvero governare con l’astensione dei socialisti, magari dopo le dimissioni di Sánchez da segretario, piuttosto che con gli estremisti di Vox. Ma la grande coalizione non è nella cultura politica di un Paese che ha conosciuto una terribile guerra civile e una dittatura finita meno di cinquant’anni fa, e solo con la morte del dittatore.
Vox al governo significherebbe una vittoria per i sovranisti di mezza Europa, compresi i nostri. Ma significherebbe anche la riapertura della questione catalana, anestetizzata da Sánchez. E magari un ritorno alle urne tra qualche mese, voluto proprio da Feijóo per gonfiare i voti del partito popolare. Di sicuro nel prossimo Parlamento non ci saranno né Pablo Iglesias, né la sua ex compagna Irene Montero, i fondatori di Podemos: la sinistra radicale si presenta in un cartello, Sumar, guidata dalla ministra del Lavoro Yolanda Díaz, che con Podemos non c’entra nulla.
La Spagna si prepara fra tre giorni a tornare a destra; con tutte le incognite di un Paese modernissimo, su cui però grava ancora l’ombra di una storia grandiosa e terribile.