Il Messaggero, 20 luglio 2023
Intervista a Guido Harari
«Ho afferrato la coda della cometa di un’epoca di cui volevo catturare lo spirito». Guido Harari, fotografo dei grandi della musica, classe 1952, racconta così ragioni e filosofia dietro i suoi scatti. A ripercorrerne la carriera è l’antologica Guido Harari – Incontri. 50 anni di fotografie e racconti, presentata da Fondazione Ferrara Arte e Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara, appena inaugurata nelle sale di Palazzo dei Diamanti, a Ferrara appunto, dove sarà ospitata fino al primo ottobre. Organizzata con Rjma Progetti culturali e Wall Of Sound Gallery, la mostra riunisce oltre 300 foto, installazioni, filmati e un set per i ritratti su prenotazione, in un viaggio che spazia da Bob Dylan, Lou Reed, Frank Zappa a Rita Levi Montalcini e Giorgio Armani. Obiettivo, raccontare e raccontarsi. Perché, rivela, «ogni ritratto è un incontro con l’altro ma anche con se stessi».
Quale foto, da piccolo, le ha fatto scegliere il mestiere?
«A 7-8 anni fui conquistato dal rock. In Italia non arrivavano video di programmi americani e inglesi, le sole immagini dei cantanti erano sulle copertine dei dischi. Vedevo mio padre portare sempre con sé la macchinetta agli eventi importanti per la famiglia e la fotografia per me diventò il modo per ricordare la musica amata e incontrare artisti».
La prima foto rock?
«Al concerto di Alan Sorrenti con Jean-Luc Ponty, nel 1971, a Milano, con la macchinetta di mio cugino. E poi al live di Santana al Palalido. Non sono esposte. Erano foto avventate. Quelle di Sorrenti riuscii a venderle a un settimanale, i negativi non mi furono restituiti. Una lezione. Poi, li ho sempre recuperati».
Prima di pensare agli scatti, si era dedicato alle interviste.
«Sì, a 12 anni, dopo un concerto dei Beatles, mi venne l’idea di fare un’intervista ai Rokes. E due anni dopo ne feci una a Omar Sharif per il giornalino del liceo. All’epoca, chiedendo foto si aveva il timore di essere invadenti. Ho gli autografi però».
Ha detto che per fotografare celebrità, bisogna sgombrare la mente dall’immaginario.
«È fondamentale affinché il soggetto non rimanga invischiato nel personaggio. Quando mi sono trovato davanti Vittorio Gassman, avevo negli occhi anni di film visti. Il segreto è far sì che il soggetto non si prenda troppo sul serio».
La foto più “facile” scattata, con connessione immediata?
«A Tom Waits. Mi diede pochi minuti e disse: “Se sei bravo, questo minuto ti regalerà qualcosa di interessante”. Funzionò. Anche Leonard Cohen: non era cupo come appariva».
E tra gli italiani?
«Ennio Morricone. Era refrattario alle foto e non si stabiliva la connessione che auspicavo, poi all’improvviso, mi disse che si sarebbe nascosto dietro un armadio, lasciando gli occhiali nel vuoto. Era nata come una provocazione, diventò complicità».
La foto più difficile, invece?
«Ho fotografato Giorgio Armani più volte, nella gran parte dei casi furono occasioni cordiali ed empatiche, ma una volta, iniziò a darmi molte indicazioni tecniche, chiedeva di luci, inquadratura, ottica. È un grande esperto, seguii le indicazioni ma, a un certo punto, gli ricordai che ero io il fotografo».
Di alcuni personaggi è diventato amico?
«Lou Reed, De André, Kate Bush, Pino Daniele, Mia Martini. Credo che abbiano capito l’autenticità del mio interesse. Il ritratto, per me, è un incontro».
I ricordi ai quali è più affezionato?
«Una giornata, in Sardegna nella tenuta di Fabrizio De André. Era intorno agli Anni Novanta. Doveva ancora uscire l’album Le Nuvole. Gli chiesi se avesse una cassetta con i brani per sentirli in anticipo. Li cantò tutti. Sentendolo, arrivò il figlio Cristiano e alcune le suonarono e cantarono insieme».
Tra gli scatti memorabili, quello a Miles Davis.
«Avrei voluto avere un chip nell’occhio per scattare foto a quello che vedevo. Era la metà degli Anni Ottanta. Davis era a Milano per un concerto. Il suo agente italiano mi disse di portare il mio book al suo hotel. Corsi. Quando mi fu aperta la porta della sua suite, vidi grandi bauli, griffati Louis Vuitton, con i mixer. E lui, in vestaglia di seta rossa, seduto sul divano con la tromba. Aprì il book e disse: “Ah sei un fotogtafo, volevo vedere book di artisti”. L’ho fotografato live».
E tra gli italiani?
«Ho collaborato per sette/otto anni con Vasco Rossi. Quando lo fotografai a Zocca, nel suo territorio, andò meglio. A studio muore. Ligabue l’ho conosciuto prima del disco d’esordio, quando organizzava concerti nella sua città. Hanno entrambi immagini mainstream. Vinicio Capossela sperimenta ogni volta».
Non solo musica.
«Già negli Anni Novanta mi interessavo al teatro, ma avevo l’etichetta di fotografo della musica, quindi se proponevo di ritrarre Saramago, mi chiedevano di fare foto a Vasco Rossi. Poi, l’incontro con Contrasto. E nel progetto Italiens, ho raccontato le eccellenze del nostro Paese. È un work in progress».
Chi vorrebbe fotografare ora?
«Nella musica, preferisco stare a guardare. Oggi è troppo facile pompare qualcuno».
Lo scatto dei sogni?
«Amy Winehouse, era ingovernabile. Aretha Franklin, Jimi Hendrix e Pasolini, cui poi ho dedicato un libro, ritratto senza macchina fotografica».
In archivio, ha scatti che non esporrebbe perché intimi?
«Fotografai Eugenio Finardi e la moglie incinta del secondo figlio un paio di settimane prima del parto. È una delle immagini più intime che io abbia mai realizzato. Finardi ha voluto pubblicarla. Uno degli scatti più privati che io abbia mai fatto è diventato così pubblico per volontà dell’artista».