il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2023
La crisi del cinema
Si sta come d’estate sugli schermi i film: appesi. C’è l’imbarazzo, non solo, della scelta per dire dell’audiovisivo qui e ora: sciopero di sceneggiatori e attori in America e ricadute sulla prossima Mostra di Venezia, campagne ministeriali dedicate a film italiani e film italiani che non si vedono e che nessuno vede, nostrane rivendicazioni attoriali (il benedetto contratto collettivo nazionale) e autoriali su calco statunitense, paventata revisione del tax credit e minacciato strappo di vesti, spoil-system al Centro Sperimentale e spauracchio di “Cinecittà agli italiani”, solo non si vedono i due liocorni.
Il cinema non è morto, però benissimo non sta: Indiana Jones e il Quadrante del Destino con il senile Harrison Ford è andato male, l’ultimo Mission: Impossible con il non giovane Tom Cruise si mette in scia, e Oltreoceano la cura Tafazzi prescrive Barbie di Greta Gerwig e Oppenheimer di Christopher Nolan appaiati in sala domani (negli Usa). Che non è un giorno migliore, ma forse l’ultimo per salvare l’estate cinematografica: riusciranno il paraculissimo Barbie e l’atomico Oppenheimer, accreditati cumulativamente di 260 milioni di dollari nel fine settimana, a risalire la china del box office? Un Masculin, féminin di Godard per principianti o, se preferite, un Grease sanificato, il primo predica il femminismo Mattel e fa proseliti: sui social, e vedremo da oggi sui nostri schermi. Una gigantesca, proterva operazione di marketing, ammantata dagli “intellettuali” Gerwig e il compagno co-sceneggiatore Noah Baumbach di autodeterminazione femminile e sfottò del patriarcato, che in soccorso del vincitore, il capitalismo delle multinazionali, annovera pure antagonisti entusiasti e anime belle. Insomma, Barbie il pubblico lo vuole, e l’ha, letteralmente imbambolato. Non stupiamoci che l’affrancamento della protagonista incarnata da Margot Robbie si compia dal ginecologo anziché dallo psicologo: così è se vi pare, lo spettatore non ha altro spazio d’azione, ossia di interpretazione, che bearsi del proprio roseo e plasticoso anticonformismo.
C’è di peggio? Ci si prova. Penne e volti dello showbiz hanno incrociato le braccia, a Hollywood ci sono più picchetti davanti a studios e streamers che spettatori, e l’affaccio sul futuro è spaventevole: la distanza tra industria e creativi non pare raccorciabile in tempi stretti, e nel vigente dominio del contenuto le conseguenze per le piattaforme s’intuiscono nefaste. Da 450 a 600 i milioni di dollari che l’accordo, ovvero l’accoglimento delle richieste di sceneggiatori e attori, costerebbe annualmente alla parte datoriale, ma il non possumus di Bob Iger, gran capo di Disney, fa reparto: “Le loro aspettative non sono realistiche. E si aggiungono alle sfide che questa azienda sta già affrontando: è una situazione dirompente”.
Venezia si prepara a fare di necessità, il fuggi fuggi americano, virtù patria e patriottica, ma il combinato disposto di film italiani-europei ha nella sala un banco di prova indigesto. La campagna “Cinema Revolution” del ministero ha calmierato il biglietto per i film nazionali e continentali a 3,50 euro, generosa offerta che non ha trovato domanda: negli ultimi due weekend in sala un solo titolo tricolore in Top10, Le mie ragazze di carta di Luca Lucini (13-16 luglio) e il doc sulla Carrà Raffa (6-9 luglio) entrambi fanalini di coda, mentre ieri la decima e unica piazza tricolore spettava a un titolo battezzato il 22 dicembre 2022, Le otto montagne. Buono per lo stato dell’arte: neve al sole.