Corriere della Sera, 19 luglio 2023
Come si negozia con la Tunisia?
Come si negozia con un Paese fragile, permeabile alle interferenze e capace di creare instabilità, non sta scritto nei manuali di nessun organismo internazionale. Certo non in quelli del Fondo monetario, che risponde a criteri precisi: offre prestiti a governi in difficoltà, se questi accettano riforme che garantiscano i rimborsi. Il caso Tunisia mostra ora che queste regole sono adatte a gestire crisi finanziarie tradizionali, ma non il coacervo di fattori presenti oggi in Nord Africa: rotte dei trafficanti, mire di Cina e Russia di estendere la propria influenza ai porti, disoccupazione e debito estero esplosivi. La Tunisia ha bisogno di un prestito dell’Fmi da 1,5 miliardi di dollari, che incoraggerebbe l’Unione europea a fornire altro credito per 900 milioni di euro e altri investitori privati. Il governo ha forse qualche mese di tenuta finanziaria, non di più. Ma il Fondo monetario, non solo perché spinto dagli Stati Uniti, pone le sue condizioni: Tunisi dovrebbe gradualmente ridurre un sistema di sussidi pubblici volti a calmierare i prezzi dell’energia e del cibo, che assorbono quasi quattro dinari di spesa pubblica ogni dieci; solo i sussidi agli idrocarburi divorano un quarto del bilancio nazionale (e beneficiano in gran parte i ricchi).
Kaïs Saïed, il presidente tunisino che ha fatto arrestare gran parte dei leader dell’opposizione, non ha neanche risposto all’Fmi. Teme le rivolte innescate dagli aumenti del pane o della benzina. Si chiede perché in Turchia Recep Tayyip Erdoğgan abbia avuto sei miliardi dall’Europa per arginare i flussi migratori, mentre per lui è tutto così complicato. Ricorda, come una concessione e una minaccia, i dati delle decine di migliaia di fermati nei porti. Sa che Pechino e forse Mosca possono fargli credito senza troppe domande (per ora). Giorgia Meloni ne parlerà alla Casa Bianca il 27 luglio. Ma neanche Joe Biden può dare all’Europa la visione geopolitica che non ha.