La Stampa, 19 luglio 2023
I ritardi (e i rimedi) sul Pnrr
Segnali preoccupanti dal piano di ripresa e dai fondi di coesione. Le misure, finanziate dall’Unione europea, sono in affanno per i tempi troppo lunghi e i ritardi. Si studiano slittamenti e rimodulazioni della tempistica. C’è chi teme il rischio paralisi e il disastro annunciato, con la conseguenza di perdere i finanziamenti europei. Se per i prossimi anni le uniche risorse disponibili sono quelle previste dal piano di ripresa, dal piano europeo dell’energia e dai fondi di coesione, corriamo il rischio di non riuscire ad avvalerci del bastone che l’Unione europea ci offre.
I progetti in difficoltà sono principalmente quelli che riguardano, direttamente o indirettamente, il territorio: linee ferroviarie, efficienza energetica, asili nido e scuole per l’infanzia, case e ospedali di comunità, misure per fronteggiare il rischio idrogeologico, fognature e depurazione. Complessivamente, le maggiori difficoltà si segnalano nelle procedure delle opere pubbliche e dell’acquisto di beni e servizi, dove si è speso meno del 10 per cento. Come sempre, vi sono forti differenze tra gli apparati pubblici. Esteri, industria e ambiente vanno bene, tra i peggiori sono cultura, salute, agricoltura, università e turismo. Se si prende come punto di riferimento la spesa complessiva realizzata, questa è di poco superiore a un decimo. Conseguenza: l’ultima rata erogata dall’Unione europea per il piano di ripresa è la seconda, incassata nel novembre dello scorso anno.
Sono state inviate richieste di pagamento per la terza e quarta rata.
Individuare i colli di bottiglia è difficile perché è scarsa la capacità diagnostica. Una volta la lentezza dello Stato era misurata con i residui passivi, cioè con le somme impegnate e non erogate.
Ora abbiamo il recente rapporto dell’Istat sulle politiche di coesione e l’ottava relazione della Commissione europea sullo stesso argomento, che risale all’anno scorso. Questi rapporti mettono in luce il basso indice italiano per quanto riguarda le qualità istituzionali, la difficoltà di rispettare il principio di addizionalità (per cui i fondi europei debbono aggiungersi, non sostituire la spesa strutturale pubblica) e la difficoltà di allineamento degli obiettivi del piano di ripresa con le politiche di coesione.
Per analizzare le cause, bisogna innanzitutto evitare tre errori. Il primo è quello di prendersela con il governo, secondo il modello «piove: governo ladro». Questo è un facile esercizio. Chi lo fa ignora che i mali della inefficienza del settore pubblico ce li portiamo dietro da molto tempo e che i troppi governi che si succedono possono al massimo aumentarli con qualche mossa sbagliata (quello attuale dovrebbe, ad esempio, affrettarsi ad adottare i circa cinquecento decreti attuativi di leggi proprie e di precedenti governi). Il secondo errore da evitare è quello di attribuire l’incapacità realizzativa esclusivamente alle procedure: è illusorio pensare di agire solo con ritocchi procedurali, snellendo i processi di decisione. Il terzo errore è quello di ritenere che la capacità amministrativa aumenti aumentando il personale.
Bisogna, quindi, evitare l’interpretazione meccanicistica del malfunzionamento della macchina esecutiva dello Stato, per cercare di affrontare le sue tare complessive, a partire dal sistema delle spoglie, che ha indebolito il vertice di tutte le amministrazioni pubbliche, fidelizzandolo ai politici di passaggio, precarizzandolo, e quindi sottovalutando il valore della competenza. Occorre affrontare il problema da più parti, a cominciare dalla restituzione di dignità al vertice amministrativo, continuando con meccanismi di incentivazione e di progressioni di carriera per i più giovani e capaci, affidando le sorti dell’amministrazione ad un’élite amministrativa selezionata in base al merito. Come il consiglio di amministrazione delle società affida ad un amministratore delegato il compito di selezionarne il management, così i vertici politici debbono solo assicurarsi che il meccanismo di selezione del management funzioni ed operi sulla base del merito, facendo avanzare i capaci e meritevoli.
C’è un’ultima osservazione da fare, che riguarda l’Italia come altri Paesi. Siamo oramai tra le democrazie mature, con tre quarti di secolo di vita e di esperienza del suffragio universale. In questo periodo, la democrazia italiana ha dato voce agli interessi collettivi della società, assicurando lo sviluppo economico, l’occupazione, la salute, l’istruzione, la sicurezza del lavoro, l’idoneità delle costruzioni, la tutela del patrimonio artistico, la sicurezza dei traffici, la sicurezza degli impianti, la gestione dei rifiuti. Questi e molti altri interessi collettivi hanno avuto riconoscimento in leggi, che li hanno canonizzati come pubblici e che hanno preposto alla loro cura appositi uffici. La compresenza di tanti interessi collettivi-pubblici, spesso in conflitto tra di loro, rende estremamente complessa la gestione della macchina esecutiva, richiede capacità di pianificazione, di coordinamento, di monitoraggio, di rendicontazione, di gestione dei finanziamenti, nonché capacità di introdurre innovazioni. Questo è il problema che tutte le democrazie mature debbono fronteggiare. Ed è questo che induce molti a dire, erroneamente, che le autocrazie sono più efficaci delle democrazie. Ma questo dimostra anche che la capacità amministrativa non è una questione puramente tecnica, non può essere affrontata con medicine settoriali. Se la velocità massima di un’automobile è cento chilometri all’ora, mettere più benzina nel serbatoio non basta per farla andare a centocinquanta all’ora. Bisogna introdurre robuste modificazioni del motore.