La Stampa, 19 luglio 2023
Intervista a Jean-Jacques Annaud
«Quando dissi a Umberto Eco che la parte di Guglielmo da Baskerville sarebbe andata a Sean Connery si mise le mani nei capelli: era terrorizzato all’idea, costernato (ma l’originale «catastrophé» rende ancora meglio)». Jean-Jacques Annaud, stasera in piazza Maggiore a Bologna per la proiezione del suo Il nome della rosa appena restaurato dai francesi di Tf1, un’anteprima assoluta a cura di Cineteca di Bologna per "Sotto le stelle del cinema", ricorda come gli venne l’idea del film, come la propose a Eco e come quest’ultimo reagì alla sua decisione di far indossare a Connery il saio di Padre Guglielmo, il protagonista: malissimo, impressione confermata al primo incontro di persona fra l’autore del romanzo e la star scozzese, sul set. «Umberto scese dal caravan di Connery dopo esserci rimasto una decina di minuti: era bianco come un cencio. L’aveva trovato ridicolo ma in compenso, aggiunse, "Sa tutto di football"», ride Annaud.
Il confronto fra un libro dai diversi piani di lettura scritto da un semiologo, un intellettuale finissimo quanto atipico come Eco, e un film, poteva far tremare i polsi, ma la realtà è che mai lo scrittore ha criticato o si è sognato di intervenire sulla mise en scène, durante la lavorazione: troppo intelligente, dice Annaud, per non sapere che i codici delle due discipline sono troppo distanti perché ci sia assoluta corrispondenza fra le due opere. Eco, che della mescolanza fra alto e basso faceva la sua bandiera, non solo ingoiò il rospo Connery pur sbiancando in volto, ma appena visto il film riconobbe che 007, in tonaca e sandali, funzionava benissimo.
Come conobbe Il nome della Rosa e come riuscì a farne un film?
«Lessi un articolo su Le Monde, di una storia in un monastero che parlava di libri antichi e preziosi, e mi appassionai. Studio cultura ellenista e leggo Aristotele in greco, mi ha preso subito. Ebbi il libro prima che venisse pubblicato in Francia: arrivato a pagina 100 chiamai il mio agente e gli chiesi se qualcuno avesse già acquistato i diritti per il cinema. A 200 mi richiama l’agente e mi dice che i diritti erano della Rai. A pagina 300 ho deciso di andare a Roma alla dirigenza Rai, era il 1982».
E cosa le disse la Rai?
«Che non sapevano che cosa farne, il libro così era difficile e non avevano un regista. Rilanciai: "Non cercatelo più, sono io il regista di questo film". A quel punto ovviamente ci voleva l’accordo di Eco, lo chiamai e lui mi disse che ci saremmo potuti incontrare durante il tragitto in taxi fra il suo albergo a Montparnasse a Parigi e la stazione, alle sei di mattina».
L’incontro col professore come andò?
«Arrivai nella hall dell’albergo e vidi apparire nel vano delle scale la sagoma di Sherlock Holmes con la pipa in bocca: era lui, con un mantello nero addosso».
La reazione di Eco all’idea di farci un film?
«Era molto intrigato e diede il suo assenso».
Seguiva la lavorazione?
«Sì, veniva regolarmente a vedere le riprese, era molto colpito dalla scenografia di Dante Ferretti, che lavorava con noi assieme al direttore della fotografia Tonino Delli Colli».
Affidare a un attore come Sean Connery il ruolo del frate intellettuale e detective gli sembrò appropriata?
«Glielo dissi a Milano in un giorno di pioggia: l’espressione esatta è che ne fu terrorizzato, diceva, "Mio Dio, mio Dio". Quando glielo presentai fu anche peggio: salì sul caravan di Connery per parlarci e quando venne giù era pallidissimo. In compenso, disse che era molto competente in fatto di calcio…».
Poi Il nome della Rosa uscì nei cinema ed Eco lo vide.
«L’ha visto prima di me in visione privata, dopo che era andato in laboratorio a Monaco senza dirmi nulla. Mi avvertirono quando era troppo tardi per poter assistere anch’io, così aspettai la sua telefonata a casa. La chiamata non arrivava, ero molto in ansia e stappai una bottiglia di Barolo. Verso le undici ne avevo bevuta metà da solo e mi addormentai con la testa sul tavolo. Il giorno dopo mi hanno telefonato per dirmi che Umberto aveva adorato il film e che Sean Connery era formidabile».
L’episodio più curioso capitato durante la lavorazione?
«Con Connery, ed è la volta che ho diretto un attore nel modo più stupido della mia vita: eravamo a Cinecittà per la scena dei libri in biblioteca e lui metteva le mani sulle pagine in malo modo, senza l’attenzione e la cura richiesta dalla situazione. Gli consigliai di aprire il volume con la delicatezza che avrebbe usato se avesse scostato le cosce di una vergine, ma Sean ha interpretato la scena con una passionalità brutale, ha anche messo la mano sulla cerniera del libro».
Connery lo aveva letto il romanzo?
«No, ma non era una mancanza. Ha studiato perfettamente la sceneggiatura e la sapeva a memoria, questo era l’importante. È un consiglio che do in genere agli attori quando interpretano una storia ispirata da un libro: lasciar perdere il libro e concentrarsi solo sullo script, altrimenti si rischia di essere in qualche modo fuorviati».
Lei non rimase perfettamente fedele al romanzo di Eco.
«Nel libro, la ragazza che va con Adso fa una breve apparizione, ma nel film non poteva essere così, allora le ho dato un ruolo più importante».
Eco fece osservazioni?
«Non me ne ha mai parlato, ma sapeva molto bene che un libro è un libro e un film è un film».