La Stampa, 19 luglio 2023
Intervista a Joyce Carol Oates
Ci sono due domande che è meglio non fare a Joyce Carol Oates.
La prima riguarda la sua prolificità. Babysitter, appena uscito anche in Italia, dovrebbe essere (dovrebbe, perché non è facile tenere il conto, tra i libri che ha scritto con il proprio nome e quelli con i vari pseudonimi) il suo cinquantanovesimo romanzo, numero che diviso per gli anni della carriera da scrittrice, iniziata nel 1964, fa quasi uno all’anno, esclusi chiaramente i racconti e i saggi. In svariate interviste, Oates ha detto, con più o meno sarcasmo, che «fare questo tipo di conteggi è per chi non ha niente di meglio da fare», e «ogni volta che scrivo è come fosse la prima volta». La seconda è: «Perché la tua scrittura è così violenta?». È, questa, una domanda talmente ricorrente e antica che già nel 1981 ci aveva scritto un articolo per il New York Times nel quale, in sostanza, ributtava la palla nel campo avversario: «Chiederebbe questa stessa cosa a uno scrittore maschio?».
Babysitter è un noir massiccio, nel cui corpo buio scorre una tensione che l’autrice gode moltissimo a mantenere sotterraneamente alta fino alla fine. Siamo a Detroit nel 1977, e quando incontriamo la protagonista Hannah, bella moglie di un uomo ricco, si trova nel corridoio moquettato di un hotel di lusso e sta per raggiungere la stanza del suo amante: ci metterà tutto quanto l’inchiostro delle 530 pagine per arrivare a bussare a quella porta. Parallela, striscia la storia di un serial killer detto Babysitter che si aggira nei quartieri alti della città rapendo e trucidando bambini intorno ai 10 anni. Anche Hannah ha figli, e il pensiero di Babysitter la terrorizza tanto quanto l’ossessione per un uomo che, incontrato a un gala di beneficenza, le fa sperimentare un modo di fare sesso che sconfina nella violenza e al quale lei, che è convinta che una donna esiste soltanto se un uomo la guarda, si sottomette. Nel romanzo, è giusto dirlo come trigger warning, ci sono numerose e dettagliate scene di tortura, sia nei confronti di donne che di bambini.
Che legame c’è tra Babysitter e Hannah?
«La storia di Babysitter, un rapitore e serial killer di bambini veramente esistito alla fine degli anni Settanta a Oakland, in Michigan, fa da sfondo al ritratto di una donna dell’alta borghesia che non ha alcun desiderio né altri ruoli oltre a quelli di moglie, madre e figlia, e che cerca allora di crearsi un’identità segreta attraverso una relazione con uno sconosciuto. Questa stessa donna, dopo alcune esperienze tremende, si rende conto che le sue responsabilità principali sono nei confronti dei figli - quando, nel parco, sottrae il proprio bambino alle (cattive) intenzioni dell’amante - e del proprio valore interiore - quando si rende conto che non può vendere le perle di sua nonna e che, invece, deve preservarle. Hannah è stata a lungo passiva, ma verso la fine del romanzo sembra essere finalmente sul punto di agire».
È stato difficile scrivere una storia come questa?
«Babysitter è stato scritto con molta fatica. Lo considero il mio romanzo sulla pandemia, perché l’ho iniziato nella primavera del 2020, quando non c’era ancora un vaccino per il Covid, non si sapeva come il virus si sarebbe diffuso e ci venivano fornite informazioni incomplete. Ricordo come alcuni di noi fossero rimasti sbalorditi nello scoprire, improvvisamente, la profondità di persone che conoscevano da tempo».
A un certo punto, lei parla esplicitamente di misoginia.
«Per molti versi, negli Stati Uniti esiste una cultura sessista profondamente radicata in cui si ipotizza che una donna non possa essere eletta alla presidenza, indipendentemente dalle sue qualifiche. La misoginia non è che l’ennesimo pregiudizio, forse patologico, contro le donne, che si basa sulla ripugnanza fisica e su un senso di superiorità sessista. Hannah è il prodotto passivo degli uomini misogini presenti nella sua vita, a cominciare dal padre dominatore che ha instaurato con lei un rapporto possessivo e di prepotenza: lei può essere solo sua figlia, non un individuo con una propria identità».
La radice del male, nel romanzo, sembra provenire dalla comune educazione cattolica di alcuni personaggi maschili. È così?
«Nella società statunitense c’è un razzismo che non ha nulla a che fare con il cattolicesimo e che è endemico dai tempi della schiavitù. Pertanto non vedo una particolare colpa da parte di alcun gruppo religioso, anzi: gli ordini cattolici di suore, in particolare, hanno svolto un lavoro meraviglioso in questo senso, anche se in gran parte è rimasto sconosciuto al pubblico dal momento che i media si sono concentrati soprattutto sui gruppi cristiani di estrema destra che, negli ultimi anni, hanno creato scompiglio. Ma Babysitter è ambientato alla fine degli anni Settanta, prima della politica trumpiana».
Perché ha scelto proprio quel periodo?
«Ambientare il romanzo a Detroit e nei suoi quartieri benestanti è sempre stata la mia intenzione, dal momento che Babysitter operava proprio nel periodo durante il quale io stessa vivevo lì. Tra i miei amici, c’erano madri di bambini che, si temeva, avrebbero potuto rientrare nel target del rapitore. Ho voluto però raccontare la storia al tempo presente, come se stessimo guardando un film. Non volevo la relativa placidità del c’era una volta».
Una volta ha detto che sposare qualcuno che non provenisse dal mondo letterario sarebbe stato un errore. Quanto è stato importante, per lei, condividere la vita con persone che potevano capire il suo mestiere?
«Alla fine sposiamo le persone di cui ci innamoriamo, e in realtà riuscire a gestire un altro scrittore/poeta all’interno di un matrimonio potrebbe rivelarsi difficile. Fortunatamente, il mio primo marito Ray era soprattutto un editor, un editore e un professore di inglese, non un romanziere o un poeta. Il mio secondo marito Charlie Gross, che ho sposato nel 2009, invece, era un neuroscienziato e un fotografo. Nessuno dei due può essere definito scrittore».
Finito un romanzo, sa già a cosa lavorerà dopo?
«Ho cartelle piene di appunti su romanzi e molte prime bozze di racconti. Il mio problema è non avere abbastanza tempo per realizzare tutti questi progetti. Anche se la gente pensa che io lavori velocemente, in realtà passo quasi tutto il mio tempo a scrivere e, soprattutto, a riscrivere. Non appena finisco un libro difficile come questo, entro in un periodo relativamente poco stressante in cui mi dedico a racconti, recensioni, poesie, e non inizio un altro romanzo per mesi. Dopo Babysitter mi sono messa a lavorare a una storia molto diversa: ambientata nel XIX secolo, si concentra sui maltrattamenti subiti da alcune donne per mano dei più prestigiosi e acclamati medici dell’epoca. Il titolo è Butcher ("macellaio") e la protagonista è una serva irlandese che riesce a sopravvivere ad alcuni esperimenti orribili condotti da un certo Silas Weir, basato sulle figure storiche di J. Marion Sims, Silas Weir Mitchell e Henry Cotton, quest’ultimo direttore del manicomio di Trenton, in New Jersey. È una sorta di romanzo meta-ottocentesco con un finale positivo».
Lei che ha scritto così tanto: pensa che si possa scrivere in qualsiasi stato emotivo?
«Gli artisti e gli scrittori spesso creano le opere più avvincenti sotto costrizione e in stati d’animo intensi. Si pensi a Van Gogh, Sylvia Plath, Anne Sexton. Ho scritto sia in stati febbrili che in stati più composti. Più velocemente scriviamo più il materiale sarà genuino, ma avrà poi bisogno di una revisione più attenta. Penso sempre alla prima stesura come a un’opera che si fa strada nel sottobosco con qualcosa di inadeguato come un coltello per il pane. Le stesure successive sono più facili e piacevoli, mentre quella finale è la vera beatitudine. E bisogna ricordarselo, perché è facile dimenticarsene».
L’anno prossimo compirà 60 anni come scrittrice. Le vengono in mente alcuni episodi particolarmente rilevanti?
«Nella vita di uno scrittore, la maggior parte dei momenti emozionanti o rivelatori sono interiori e non tanto interessanti per gli altri. Ogni romanzo rappresenta non una, ma una serie di piccole epifanie mentre lo scrittore si fa lentamente strada verso il finale. Per quanto riguarda la mia carriera, sono stata ovviamente molto incoraggiata dai primi premi ricevuti, come il National Book Award del 1970 che attirò parecchio interesse verso il mio lavoro e mi diede un senso di fiducia che prima mancava. I primi incoraggiamenti non hanno prezzo, per un giovane artista. Più avanti, poi, e per ovvie ragioni, non hanno più lo stesso peso, ma si è sempre grati al pubblico dei lettori e per ogni parola gentile e generosa».