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 2023  luglio 19 Mercoledì calendario

Grandi penne contro grandi industrie

Tra il 5 e il 9 dicembre del 1952, complice l’anticiclone e l’assenza totale di vento, Londra fu sepolta da una cappa di smog così densa da impedire agli autobus di circolare. I pedoni che si avventuravano lungo le strade erano costretti a costeggiare i muri, perché non si vedeva ad un palmo dal naso. A un certo punto, il fumo divenne così denso che penetrò nelle case. Dodicimila londinesi morirono di crisi respiratoria; centomila, invece, è il numero di coloro che ebbero lesioni permanenti ai polmoni. Con tutta probabilità, fu questa vicenda da libro nero dell’industrializzazione a spingere Italo Calvino a scrivere nel 1958 La nuvola di smog, un romanzo che introduceva nel gergo dell’italiano il nuovo termine, epitome lessicale dei danni causati dal progresso.
Con il passare del tempo, «smog» divenne una parola nota a tutti: «Il bambino di fumo canta sulla città/ per chiamare i cavalli che corrono oltre i tetti/ ma lassù/ stringe solo criniere di nebbia/ ma lassù/ solo smog» canta Lucio Dalla nel 1971. Chi scrive ricorda che in quegli anni un fumetto del Corriere dei Piccoli proponeva, nella parte del villain, il bieco Dottor Smog, scienziato perverso il cui massimo godimento consisteva nell’arrampicarsi sulle ciminiere per inspirare quanto più fumo possibile.
Calvino, nota Giuseppe Lupo in un saggio che si candida ad essere un punto di riferimento imprescindibile sui rapporti fra industria, società e letteratura italiana dagli anni Cinquanta ad oggi, La modernità malintesa. Una controstoria dell’industria italiana (Marsilio, pagg. 368, euro 20), non era l’unico a stigmatizzare le storture di uno sviluppo troppo rapido per essere gestibile.
La linea prevalente, quella di una denuncia degli abissi di alienazione delle fabbriche, fu percorsa anche da Pasolini ne Il pianto della scavatrice, da Giancarlo Buzzi ne Il senatore, da Vittorio Sereni ne Una visita in fabbrica, da Carlo Cassola ne Il superstite, da Paolo Volponi con Il pianeta irritabile e Memoriale e da Goffredo Parise con Il padrone. Anticapitalistico è il protagonista della Vita agra di Bianciardi, latore di un derisorio «neocapitalismo a sfondo disattivistico e copulatorio». Persino figure che, per indole e studi, avrebbero potuto assumere posizioni meno ostili allo sviluppo industriale (Franco Fortini, Italo Calvino, Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini) finirono per raggiungere il partito degli apocalittici, o almeno degli scettici.
Le ragioni di una simile intolleranza («inimicizia fra gli uomini e le macchine», la definisce Lupo) sono varie, ma possono essere riassunte nella formula «Arcadia più Marx». Un intellettuale importante come Sinisgalli, di formazione matematico, confessò di aver perduto la vocazione per la scienza in un bordello di via Baccina, a Roma: «In una squallida stanza trovai la donna grassa e rossa che doveva iniziarmi ad un mistero diverso da quello di Cartesio, di Leibniz, di Gauss. Passai dalla sponda impervia alla riva fiorita». Oltre alla ricorrente vocazione arcadica della cultura italiana, anche la teoria marxista dell’alienazione e gli strali lanciati da Marx all’indirizzo del «socialismo utopistico» dei Saint-Simon, Fourier e Owen (socialismo il cui scopo era trasformare le fabbriche in luoghi, se non paradisiaci, almeno vivibili), contribuirono a rendere ardua una soluzione non passatista del problema («Io sono una forza del passato», esclama Pasolini in un verso celebre). A gettare riflessi sinistri sul mondo industriale, inoltre, dava una mano il ricordo ancora fresco della fabbrica perfetta, il congegno di lampante efficienza fordista chiamato Auschwitz.
Nell’Italia del boom c’è un’eccezione vistosa, naturalmente, cui Giuseppe Lupo attribuisce il ruolo dell’eroe: quella di Adriano Olivetti. Piemontese, nutrito a illuminismo lombardo e spiritualismo francese, riuscì a creare un umanesimo industriale inviso agli altri capitani d’impresa, per molti dei quali la parola «cultura» riguardava tutt’al più la visita in sartoria. Dominato dal pensiero della responsabilità sociale dell’imprenditore, agì negli stabilimenti di Ivrea cercando di conciliare profitto e stile, progresso e radici, assumendo come funzionari e consulenti della celebre fabbrica di macchine da scrivere intellettuali trasversali ai partiti e alle ideologie: Volponi e Fortini, Buzzi e Sinisgalli, Pampaloni e Bertolucci. Purtroppo Olivetti «creava imbarazzo sia nella Confindustria e nella destra economica, sia nei sindacati e nei partiti di sinistra»; quanto al supporto morale dei politici, anzi, meglio lasciar perdere.
Nel 1959 l’Olivetti acquisì la Underwood, un’azienda statunitense. «Quello scemo di Segni quando era qui alla conferenza stampa un giornalista americano gli ha chiesto cosa pensava dell’infiltrazione Olivetti nell’azionariato Underwood, ha risposto: Una grande ditta come la Underwood non avrà certo da temere dalla nostra piccola Olivetti». A dare dello scemo a Segni, così ottuso da non aver capito che l’Olivetti era una corazzata, non una barchetta, fu Calvino. E il cerchio si chiude.