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 2023  luglio 18 Martedì calendario

Uccidere Sherlock in nome della Storia

Anticipiamo uno dei 13 inediti. “Sto pensando di uccidere Holmes... Mi distoglie dal pensare a cose migliori": così nel 1911 Arthur Conan Doyle molla il detective e torna all’antica passione, la Storia


Era l’anno del Signore 66 e Nerone, che aveva ventinove anni ed era Imperatore da tredici, salpò per la Grecia con una compagnia davvero bizzarra e il progetto più singolare che un monarca avesse mai preso in considerazione. Era partito da Puteoli con dieci galee, portando con sé tantissimi paesaggi dipinti e materiali di scena per il teatro, oltre a parecchi soldati e senatori – tutti condannati a morte nel corso dei suoi vagabondaggi – che non si fidava di lasciare a Roma. Il suo corteo comprendeva Nato, l’insegnante di canto; Cluvio, un uomo dalla voce incredibile che doveva declamare i suoi titoli; e un centinaio di giovani addestrati che avevano imparato ad applaudire all’unisono quando il loro padrone cantava o suonava in pubblico. Erano stati istruiti tanto bene che ognuno di loro aveva un proprio ruolo da interpretare. Alcuni si limitavano a emettere un basso e profondo brusio di muto apprezzamento. Altri applaudivano con entusiasmo. Altri, passando dall’approvazione alla frenesia più assoluta, gridavano, pestavano i piedi e battevano dei bastoni sulle panche. Altri ancora – e il loro compito era quello che dava i risultati migliori – avevano imparato da un alessandrino una lunga e ininterrotta nota musicale che proferivano all’unisono, cosicché rimbombasse in mezzo alla folla. Con l’aiuto di questi sostenitori mercenari, Nerone aveva grandi speranze, nonostante la voce mediocre e l’esecuzione maldestra, di tornare a Roma con le corone per la canzone offerte dalle città greche durante le libere competizioni. Mentre la sua imponente galea dorata con due file di remi attraversava il Mediterraneo, l’Imperatore, assieme al maestro, trascorreva le giornate seduto nella sua cabina a provare le composizioni che aveva selezionato. Lì, a intervalli regolari, uno schiavo nubiano massaggiava la gola imperiale con olio e balsamo, per prepararla all’importante ordalia che l’attendeva nella terra della poesia e della canzone. Il cibo, le bevande e gli esercizi gli venivano prescritti come si fa con un atleta che si allena per una gara e le vibrazioni della lira, insieme alle note stridenti nella sua voce, risuonavano senza posa dalle stanze imperiali.
Volle la sorte che, all’epoca, vivesse laggiù un capraio greco di nome Policle, responsabile e in parte proprietario di un grosso gregge, noto in tutta la campagna per possedere delle strane abilità e un carattere singolare. Si trattava d’un poeta ch’era stato incoronato due volte per i suoi versi e di un musicista per cui l’utilizzo e il suono d’uno strumento erano così naturali ch’era più facile incontrarlo senza il suo bastone che senza la sua arpa. Era anche bellissimo. Ma tutto ciò veniva guastato dal suo carattere, tanto autoritario da non ammettere alcun dissenso o disaccordo… Un mattino di primavera dell’anno 67, Policle, con l’aiuto del figlio Doro, aveva condotto le capre a un nuovo pascolo dal quale, in lontananza, si scorgeva la città di Olimpia. Osservandola dalla montagna, il pastore rimase sorpreso nel notare che una porzione del famoso anfiteatro era stata ricoperta da un tetto, come se vi si stesse svolgendo uno spettacolo. Era sicuramente in corso una gara poetica o musicale di qualche tipo, di cui non aveva saputo nulla. Se così era, forse c’era qualche possibilità per lui di ottenere i voti dei giudici. In ogni caso, amava ascoltare le composizioni e ammirare l’esecuzione degli abili menestrelli che si riunivano in quelle occasioni. Chiamando Doro, gli affidò le capre e se n’andò a grandi passi, l’arpa sulla schiena, a vedere cosa stesse accadendo.
Avvicinandosi al teatro, Policle percepì quel ronzio basso che preannuncia la presenza d’una grande folla. Neanche in sogno aveva mai immaginato una gara musicale su così ampia scala… Sul palco fece la sua comparsa, tra l’entusiasmo del pubblico, una figura più che straordinaria. Si trattava d’un uomo basso e grasso, né giovane né vecchio, con il collo tarchiato e il volto chiatto che pendeva rugoso come la pappagorgia di un bue. Aveva un buffo abbigliamento, composto da una corta tunica blu e una cintura dorata. Il collo e parte del petto erano esposti e le gambe grasse e corte erano nude dagli stivaletti a metà delle cosce, dove gli arrivava la tunica. Un nero con un’arpa camminava alle sue spalle, mentre accanto a lui c’era un ufficiale vestito sfarzosamente che sorreggeva dei rotoli di musica. La strana creatura prese l’arpa dalle mani dell’inserviente e avanzò verso il proscenio, dove s’inchinò e sorrise alla platea esultante… Il musicista toccò diverse corde sulla sua lira e poi esplose all’improvviso nell’Ode a Niobe. La nota bassa fu come un grugnito, un brontolio, il profondo ringhio discordante di un cane rabbioso. Poi, d’improvviso, il cantante alzò il volto, raddrizzò la sua figura grassoccia, si mise in punta di piedi e con la testa che ciondolava e le gote scarlatte emise un ululato simile a quello che avrebbe emesso quello stesso cane… Ma la platea esplose in un delirio d’apprezzamento… Era un’intollerabile follia! Se veniva permessa una cosa del genere, la giustizia musicale in Grecia era morta.