Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  luglio 18 Martedì calendario

Dalla Beresina alla Crimea, la guerra corre sui ponti

Ponti ad arco, a travata, isostatici e iperstatici, strallati e sospesi, a telaio, in pietra, in muratura, in cemento armato, in acciaio e in calcestruzzo addirittura, ganzissimi, in fibra di vetro o di carbonio. Ponti con tanto di nome e cognome delle archistar che li hanno disegnati e ponti di barche che è miracolo anonimo del genio pontieri o tenuti su alla meglio da muriccioli di sassi rifatti cento volte con pazienza di santi. I ponti inteneriscono anche i romanzieri che scrivono di guerra. Tutto l’intreccio di Per chi suona la campana ruota attorno a quel ponte franchista che l’Inglés deve sbriciolare a tutti costi. E il mulino del Po di Riccardo Bacchelli, grande romanzo manzoniano, si muove sulle orme di un uomo di fiume che i ponti li costruiva in gioventù, prima di fare il mugnaio, con l’uniforme di quel diavolo di Napoleone.
La guerra adora i ponti di un amore vivo e cupo, adora soprattutto distruggerli quando «bisogna far contro il nemico una barriera» e una formidabile trappola per gli eserciti. Più complicato gettarli in poche ore per restare alle calcagna del nemico. In fondo il ponte è il contrario della guerra, supera, scavalca, mette in contatto con l’altra parte, crea reciproche fiducie senza reticenze e intorbida le acque semplificate del con noi o contro di noi. Quale è il compito della guerra da sempre, da quando i ponti resero primitivo il guado, se non dividere, separare dall’altro, noi di qua del fiume o del burrone e il nemico, l’altro, l’intruso dall’altra parte, così da scambiarci insulti e fucilate attraverso le amate sponde? La guerra, tutte le guerre si accaniscono contro i ponti. La loro distruzione, prima che legata alla altissima cucina degli chef del serrare sotto, è un evento simbolico, è la negazione della pace. Spesso i ponti vengono distrutti con maggior cura proprio quando non hanno valore militare, sono memorie scomode, riferimenti alla possibilità di convivere. Come il ponte di Mostar. Nelle guerre balcaniche. In fondo è questo il destino anche del ponte della Crimea, su cui si accaniscono gli ucraini con droni e bombe. Non ci passeranno sopra mai i carri armati, semmai vi transitano i suv dei vacanzieri putiniani. Se volete un simbolo potente. Ma i suoi ruderi affioranti dalla acque melmose del Mar Nero serviranno a rimpolpare per sempre l’odio reciproco e la impossibilità di qualsiasi coesistenza. La pace si uccide anche così.
Dovrebbe provocare la vertigine agli arruffapopoli di ogni colore far l’elenco dei destini e degli imperi millenari, infrangibili che si schiantarono nella polvere a causa di una campata minata a puntino o al contrario per la smemoraggine di un artificiere che sbagliò la miccia.
Cesare faceva nascere i ponti sul Reno per portar la guerra ai germani indomabili facendoli apparire dal nulla, in un giorno, e gli antenati di Arminio presi da sacro terrore nel vedere il dio del fiume domato con tronchi e funi, fuggivano nello loro selve impenetrabili. Rimandando ad altro tempo il compito di fermare la civiltà romana.
E poi immaginate che sarebbe successo se quel giorno al ponte Milvio, terra oggi di rotonde e centri commerciali, il cristiano (da pochissimo, per una apparizione nella notte) Costantino fosse stato sconfitto dall’irriducibile pagano Massenzio? Sarebbe da riscrivere la storia dell’Occidente, altre che le prepotenze e le batracomiomachie di Putin! Fu un ponte a tradirlo, il campione degli dei falsi e bugiardi, perché crollò sotto il peso dei suoi soldati cui aveva ordinato di ritirarsi verso le confortevoli mura di Roma. I pretoriani, bloccati sull’altra riva del Tevere, ormai senza scampo, racconta Zosimo, disperando di esser perdonati coprirono con i loro corpi il luogo dove avevano scelto di morire. E lui, Massenzio? Cercò di fuggire verso il biondo Tevere, ma la folla lo spinse a capofitto nel fiume dove morì. E iniziò così con un ponte in rovina la storia del mondo.
E per rinfrescare la memoria quanto deve Napoleone ai ponti, nell’ascesa memorabile e nella caduta per cui egualmente sono stati sprecati tutti gli aggettivi possibili? Un quadro di Horace Vernet dice tutto, più abbordabile all’occhio del bassorilievo dell’arco di trionfo con lo stesso soggetto. C’è un giovane Napoleone, smilzo, aureolato di vittoria, con la bandiera in mano che guida la carica per prendere il ponte di Arcole sotto la mitraglia degli austriaci. Prima campagna d’Italia, sfolgorante ouverture del volo dell’aquila.
Ma quell’uomo tragicamente destinato a ricusare e sforzare ogni limite diede materia a molte generazioni di storici anche con il ponte della sconfitta, l’intirizzito varco sulla Beresina nel precipitoso ritorno da Mosca. Sotto un cielo di grafite, con i cosacchi al dorso e una striminzita Grande armata quel ponte preso d’assalto fu l’ultimo piedistallo della gloria. Non per l’Imperatore già passato svelto e senza danni per andare a preparare la impossibile rivincita. Ma per Ney, il prode dei prodi, che nel nome della Beresina ottenne un fragile titolo nobiliare, per poi sprecarlo con un tradimento e una fucilazione.
E poi ci sono i ponti nostri, quelli delle ritirate, delle sofferenti anàbasi che sono le tinte delle nostre guerra di poveri. Le ore di piombo di Caporetto, il fatale 1917. Un mare di gente pesta e sbaragliata, soldati e profughi si mette in marcia verso il Tagliamento, si inneggia al nemico si gettano i fucili la guerra, si illude qualcuno, è finita. Invece Cadorna, sempre lui, ancora lui, sogna Termopili fluviali, vuole forse rallentare il nibelungico sforzo di quei tedeschi già definiti invincibili. Si pretendono istantanee metamorfosi eroiche davanti ai ponti a Codroipo Latisana e Madrisio. Ufficiali ancora nostalgici delle decimazioni passano al vaglio i fuggiaschi senza fucile. Si allestiscono frettolosi plotoni di esecuzione. Ma il fiume traditore è con i tedeschi, è gonfio, disarciona a ondate i ponti di barche costruiti a supporto. Allarme urla fucilate dall’altra sponda che nereggia di gente: son qui! Arrivano! Sono solo avanguardie, ma un ufficiale a Codroipo preso dal panico, ordina di far brillare le mine. Molti, troppi restano sull’altra sponda.
E poi il ponte che divenne canzone della Julia, Perati, in Albania, un ponte da niente tra un groviglio inestricabile di dorsi rognosi, senza un filo d’erba, il resto di antichi cataclismi. Lo passammo sicuri di spezzare le reni alla Grecia facendolo risuonare sotto le scarpe di cuoio con 72 chiodi cadauna come da sabaudo regolamento, i polpacci imprigionati nelle fasce gambiere. Slittammo indietro di chilometri nonostante le frustate telegrafiche del maresciallo dell’impero.
Ponti che non vennero distrutti accelerarono la fine di una guerra. Lo avevano intitolato a Ludendorff, chissà perché visto che anche quel signore della guerra aveva postillato la parola «Rückzug», ritirata. Eran trecento metri in acciaio sul Reno a Remagen. Nel marzo del 1945 il Reich ex millenario già agonizzava ma cercava ancora gloria nelle carneficine per la rabbia di non poterla conseguire nella vittoria. Incombeva già tra gli alti comandi americani la corsa con i russi e il traguardo era ancora lontanissimo, Berlino. I tedeschi l’avevano tenuto in piedi, quel ponte, chissà sognavano di ripassarlo in una improbabile controffensiva. Quando si rassegnarono le cariche fecero cilecca. Dieci giorni dopo il passaggio americano il ponte, di schianto, crollò.