La Stampa, 18 luglio 2023
Le litigate tra regista e direttore d’orchestra
Sembrano quelle coppie di coniugi che, non potendo o volendo separarsi, restano insieme litigando un giorno sì e l’altro pure. Ma almeno, nel loro caso, la coabitazione dura non finché morte non li separi ma solo lo spazio di una produzione d’opera. Che però può risultare lunghissimo lo stesso.La pagliacciata di Alberto Veronesi a Torre del Lago è impossibile da prendere sul serio. Però ripropone una questione che avvelena il teatro musicale da decenni: quella delle regie e, in particolare, dei rapporti fra regista e direttore, due figure che poi nel circo operistico sono le ultime arrivate, il direttore intorno al 1860 e il regista negli anni Quaranta del Novecento. Se il dominus non è uno solo, se i due galli nel pollaio lirico non hanno le stesse idee, chi impone la sua? Chi prevale? In teoria, dovrebbe essere il direttore d’orchestra, responsabile ultimo dello spettacolo secondo la vecchia lezione toscaniniana. Ma, visto che negli ultimi decenni il “peso” del regista è andato crescendo, in realtà dipende da chi dei due è più forte in termini di prestigio personale, carriera, visibilità mediatica o anche di padrinaggio politico (vedi appunto Veronesi). L’ideale, ovvio, è che i due siano in sintonia. I grandi spettacoli d’opera nascono appunto quando regia e direzione, quel che si vede e quel che si sente, vanno nella stessa direzione. E allora hai il Rossini cartesiano e metafisico di Claudio Abbado che si esalta con quello geometrico e surreale di Jean-Pierre Ponnelle, e viceversa, o la rivoluzione culturale del Ring di Patrice Chéreau che trova la sponda nel Wagner antiretorico e novecentesco di Pierre Boulez. E tuttavia l’opera è uno spettacolo che richiede professionalità così numerose e specializzate che per quagliare a questi stratosferici livelli bisogna siano all’altezza tutti, non solo i due dioscuri. Basta che un filo di catarro si depositi sulle corde vocali del tenore al momento meno opportuno per vanificare mesi di lavoro di centinaia di persone.Altre volte, anzi il più delle volte, le idee di direttore e regista non collimano del tutto o collimano poco o non collimano per nulla. Di solito, si trova un compromesso che garantisca un modus vivendi accettabile durante le prove, porti a casa la prima e poi nemici come prima. Talvolta invece capita che qualcuno non ci stia e decida di andarsene, di solito il direttore. Avvenne per esempio quando la Scala scritturò Wolfgang Sawallisch per un nuovo Anello del Nibelungo (di Richard Wagner), negli anni Settanta. Sawallisch avrebbe voluto come regista Günther Rennert, che però non stava bene. Allora il teatro chiese a Luchino Visconti, che stava anche peggio e disse di no. Sawallisch propose allora Dieter Haugk e ne scrisse a Milano ma, racconta nell’autobiografia La mia vita con la musica, «la lettera non arrivò in tempo per colpa di uno sciopero delle poste italiane». Alla Scala scelsero Luca Ronconi, all’epoca giovin regista iconoclasta e, come si dice in cretinese, “provocatore”. Racconta Sawallisch: «Mi apparve subito chiaro che Ronconi non aveva avuto il tempo di studiare l’opera» (cominciavano con Valchiria). La crisi deflagrò quando il soprano Ingrid Bjoner vide in scena un grande cavallo e naturalmente chiese se si trattasse di Grane, il destriero di Brunilde. Secondo Sawallisch, Ronconi rispose: «Grane? E chi è?» (da qui una battuta che girò a lungo alla Scala: ma che, cerchi Grane?). Risultato: la coppia scoppiò dopo il successivo Sigfrido, il Crepuscolo degli dei a Milano non lo videro mai, Sawallisch tornò in Germania e Ronconi andò a finire il suo Ring al Maggio fiorentino.Se Riccardo Muti conduce da anni una personale crociata contro i registi, anche il suo attuale successore a Milano, Riccardo Chailly, con loro non ha mai avuto rapporti facili. Alla prima del 2015 con Giovanna d’Arco, un microfono lasciato incautamente aperto colse un apprezzamento non molto gentile, diciamo così, e sicuramente irriferibile del regista Moshe Leiser a Chailly. La seratona di Sant’Ambroeus, evidentemente, esaspera i contrasti: si ricordano quelli fra Daniele Gatti e Dimitri Cerniakov sulla Traviata “delle zucchine”, quelle che Alfredo affettava durante la sua aria, e Robert Carsen in lacrime dopo un “confronto” con Daniel Barenboim sul loro Don Giovanni. Ma forse è bene che questi rodei ci siano. Altrimenti, come diceva un’altra coppia che però non scoppiò mai, che barba, che noia…