Corriere della Sera, 17 luglio 2023
Biografia di Riccardo Illy raccontata da lui stesso
Scritto in Arial, il carattere più banale del pc, il cognome Illy assomiglia a un triplice muro, dal quale l’ultima lettera tenta di sgusciare via. L’imprenditore Riccardo Illy incarna quella ipsilon finale. A 18 anni si fece assumere come facchino da una cooperativa. A 19 se ne andò di casa, senza dire nulla ai suoi, per sposarsi in jeans e scarpe da tennis con Rossana Bettini, che dopo quasi mezzo secolo resta sua moglie. Da sindaco si sottrasse alla scorta che il prefetto di Trieste voleva imporgli e continuò a girare in moto, nonostante l’ordigno zeppo di chiodi esploso davanti alla sua casa: «Però circolavo armato». Nel 2016 lasciò Illycaffè, che ora vede al comando il fratello Andrea, per dedicarsi al Polo del Gusto, la holding familiare dei prodotti di nicchia: Domori (cioccolato), Dammann Frères (tè), Pintaudi (biscotti), Achillea (succhi e confetture bio), Agrimontana (frutta conservata). La mattina appena sveglio beve un tè invece del caffè.
L’uomo è ciò che mangia.
«Sì, aveva ragione Ludwig Feuerbach. Un’industria universale. L’uomo mangia da sempre e continuerà a farlo».
Si vocifera che lei consumi gli yogurt scaduti.
«Sono ancora vivo».
Ha la tendenza a svicolare.
«Non sono un anarchico. È che da ragazzo mal sopportavo gli eccessi di disciplina».
Esemplifichi.
«In casa si parlava italiano e tedesco. Per farmi imparare il francese, a 16 anni mio padre Ernesto m’incentivò a tradurre in italiano L’agressivité détournée di Henri Laborit».
L’autore dell’«Elogio della fuga», guarda caso.
«Ci ricavai i soldi per passare dalla Vespa 50 al Ktm 125».
È sfuggente ma rigoroso.
«Merito di mia madre Anna, convertitasi al valdismo: reputava il cattolicesimo poco rigido. Mi fece battezzare in chiesa solo per non arrecare un dispiacere al nonno Francesco, fervente cattolico, che stava morendo di tumore».
Questo che cosa comportò?
«I valdesi non hanno la confessione. Quindi è meglio non peccare».
Il nonno fondò la Illycaffè.
«Giusto 90 anni fa. Era nato nel 1892 a Timisoara, in Ungheria, oggi Romania. Ma aveva ascendenze francesi. Nelle Ardenne c’è Illy, un paesino».
La concorrenza di Nespresso si fa sentire?
«Beh, non c’è confronto fra Nestlè, che nel 2022 ha fatturato 94,6 miliardi di euro, e noi, arrivati a 500 milioni e rotti. Però il primo brevetto delle cialde di carta lo portò in Italia mio padre negli anni Settanta dagli Usa. Lo ebbe da Cyrus Melikian, un armeno».
Perché scese in politica?
«Me lo chiesero cittadini, amici, industriali, scienziati. Arrivarono a me per disperazione, dopo che Giacomo Borruso, rettore dell’università, aveva rifiutato la candidatura a sindaco di Trieste».
La famosa «società civile».
«Esatto. Vado orgoglioso di aver portato in consiglio comunale nel 1993 l’astrofisica Margherita Hack e Paolo Budinich, cui Trieste deve il titolo di Città della Scienza».
Ma prese tante pernacchie.
«Quella era la specialità dell’indipendentista Giorgio Marchesich, centralinista del Piccolo, il quotidiano locale. Chiudeva i suoi interventi con il versaccio. Siccome aveva il record delle preferenze, divenne presidente dei consiglieri. “Soprintendo i lavori contro la mia volontà”, esordì. Molto simpatico».
Alla Camera andò meglio?
«Due anni sprecati a schiacciare bottoni. Il deputato parla mentre un rappresentante del governo finge di ascoltarlo. Il dibattito parlamentare va abolito. È solo una farsa».
Gli imprenditori non devono fare solo gli imprenditori?
«No. Troppo facile criticare e basta».
Quindi che differenza c’era fra lei e Berlusconi?
«Io agivo per spirito di servizio, lui perché si sentiva minacciato dai comunisti. Lo disse nel 1993, invitandomi a un incontro il cui scopo mi fu chiaro solo l’anno seguente».
Ma lei non era comunista?
«Mi considero un liberale».
Come il Cavaliere.
«Per me era un oligopolista, benché abbia avuto il merito di circondarsi di gente valida. Penso ad Antonio Martino, per esempio».
È contento di Elly Schlein?
«No, credo che sia una iattura per il Pd, per il centrosinistra e pure per Giorgia Meloni, che ancora non lo sa».
La sta avvertendo. Spieghi.
«Al leader della maggioranza serve un’opposizione forte, non debole e frammentata, altrimenti si rafforzano i rivali interni. Schlein farà perdere molti voti al Pd. Trovo surreale che l’abbiano eletta i passanti. Il segretario giusto era Stefano Bonaccini».
Quando Matteo Renzi perse il referendum, lei predisse che sarebbe risorto come l’araba fenice. Più che altro è diventato mezzo arabo.
«Vero. Una delle mie previsioni sbagliate, non l’unica».
Trieste non era di destra? Le ha fatto un incantesimo?
«Semplicemente dissi che avrei accettato la candidatura a sindaco da qualunque partito a patto che non ponesse condizioni e non pretendesse esclusioni. Fui eletto».
La sua famiglia non ebbe mai a che fare con i titini?
«Evitammo le foibe, per fortuna. Però il nonno aveva un’azienda agricola in Istria, vicino a Buie, che fu requisita dopo la guerra dal governo socialista jugoslavo: essendo un imprenditore, era considerato nemico del popolo».
Lei chiese «più libertà di licenziare». Poco di sinistra.
«Proposi la flexsecurity, che in Belgio ha funzionato benissimo, e due soli sussidi: uno per chi è inabile, l’altro per chi resta senza lavoro».
Che cosa cerca nei candidati all’assunzione?
«Intelligenza. E intraprendenza: con gli ordini dall’alto le aziende non ingranano».
Favorevole alla Via della Seta con approdo a Trieste?
«Vista la deriva totalitarista di Xi Jinping, che ha cambiato la costituzione cinese per garantirsi il terzo mandato, oggi sarei contrario».
Provi a definire la sua città.
«Integratrice di sistemi. La vedeva così il ministro Tiziano Treu e io ero d’accordo».
Un pregio di Trieste?
«La qualità della vita elevatissima, per natura, clima, cultura, organizzazione. Supera la media nazionale».
Un difetto?
«Il rovescio della medaglia. Conosco dirigenti che hanno rifiutato importanti promozioni per non doversi trasferire in città meno edoniste».
Ricorda la Bologna bollata dal cardinale Giacomo Biffi come «sazia e disperata».
«Trieste è sazia ma non disperata».
«Piuttosto che niente, meglio piuttosto», è così?
«Era la mia frase preferita. Ma ora ne ho adottata un’altra. L’ho rubata a Vittorio Vannucchi, bolognese, che era mio direttore vendite in Illycaffè ma fu anche arbitro di serie A. Il 13 aprile 1975, durante Inter-Fiorentina, espulse dal campo Giacinto Facchetti. Fu l’unico cartellino rosso in 634 partite del difensore nerazzurro».
Sentiamola.
«Meglio arrossire prima, che impallidire dopo».