La Stampa, 17 luglio 2023
Una logica da Guerra fredda dietro lo stop di Biden a Kiev
Tra alba e tramonto del 24 giugno, mentre Prigozhin marciava su Mosca, Washington ha dovuto scegliere fra Russia e Ucraina. Ha scelto Russia. Meglio la stabilità della superpotenza nucleare che una guerra civile innescata dal capo del Gruppo Wagner, per cui Kiev entusiasta tifava.
Scelta confermata via Nato l’11 e 12 luglio a Vilnius, dove Biden ha stabilito che Kiev non può aderire al Patto Atlantico finché dura la guerra con Mosca. Con ciò gli Stati Uniti e i loro alleati hanno concesso alla Russia il diritto di veto sull’eventuale ingresso dell’Ucraina nella Nato: basta non fare la pace. Anche un precario cessate-il-fuoco, ovvero una sospensione delle ostilità, non sarebbe sufficiente a emancipare Zelensky da tale vincolo.
Svolta importante, se si considera che il rifiuto di accettare veti esterni contro chi vuole aderire al blocco transatlantico è sacro principio sempre proclamato e ripetuto alla vigilia dell’invasione russa dai suoi 31 membri, Stati Uniti in testa. Biden ha aggiunto di suo vaghe condizioni che riguardano la democratizzazione del paese aggredito e la sua trasformazione in Stato di diritto. Qualifiche non misurabili con metro oggettivo, ma interpretabili ad uso di chi governa il club agognato dagli ucraini. Di qui il rifiuto di offrire una data per l’invito a iev, da Zelensky definito «assurdo». Sicché la questione è alle calende greche.
La divaricazione latente fra Washington e Kiev è ormai palese. Biden e Zelensky hanno affrontato la guerra su basi strategiche diverse. L’America non vuole né ha mai voluto combattere direttamente la Russia. L’Ucraina sì, per legittima difesa. Americani e russi sono vecchi avversari che si capiscono e rispettano da quasi un secolo. Non si sono mai fatti la guerra calda e lo considerano un punto d’onore. Quella fredda era la faccia scura di un ordine basato sulle regole infranto dal suicidio sovietico, che sconcertò Washington, quasi si sentisse tradita. I colpi indiretti erano e restano ammessi, sotto la soglia nucleare. Abituati a studiarsi fino alla noia, i cari nemici continuano a pungersi con stoccate clandestine, sofisticate, codificate. Mai definitive. Barano allo stesso gioco. E se ne compiacciono.
Americani e ucraini non sono alleati. Si conoscono poco e male. La Cia è più informata su strutture e intenzioni del potere russo di quanto lo sia sulle ucraine. Zelensky non controlla alcune fazioni interne, militari e spionistiche. Ma ne condivide la frustrazione per l’asserita disonestà di americani e associati, che tuttora gli sbarrano la porta della Nato dopo averne fatto la bandiera di guerra. Come se avesse tardivamente scoperto d’essere finito in una guerra per procura, canone degli scontri russo (sovietico) – americani da quando mondo è mondo.
Il presidente ucraino si sorprende delle velenose frecciate che gli arrivano sottobanco dagli Stati Uniti e molto se ne irrita. Washington fa sapere che Kiev ha ripetutamente infranto l’intesa informale stabilita già a fine 2021 dall’intelligence americana con futuri aggressori e aggrediti, su separati tavoli: la Russia si impegnava a non portare lo scontro oltre l’Ucraina e a non impiegare la Bomba, in cambio della promessa americana di non attaccarla né rovesciarne il regime (di qui la battuta di Biden sulla «minor incursion» concessa a Putin); Kiev incassava favolose forniture di armi e informazioni pregiate da americani e atlantici, ma giurava di risparmiare il territorio russo. Il 24 febbraio 2022 Washington era inoltre pronta a evacuare Zelensky e il suo governo a Leopoli. Dalla testa di ponte della Galizia – il Nord ucraino che Putin considera Polonia – si sarebbe organizzata la resistenza, secondo schemi già fissati dalla Cia negli anni Cinquanta, in piena guerra fredda.
L’intelligence americana considera la promessa ucraina di non attaccare la Federazione Russa violata a ripetizione. Dal sabotaggio di Nord Stream a quello del ponte di Ker?, dagli attentati in Russia all’attacco contro la base di Engels fino al volteggio di droni sul Cremlino. Lista lunga, forse non sempre veritiera, come accade nelle intossicazioni fra servizi. Il caso Prigožin ha convinto la Cia, con l’approvazione di Biden, dell’urgenza di trasmettere a selezionati media l’inquietudine degli Stati Uniti per la spregiudicatezza ucraina. Intesa fuoco "amico" di sbarramento contro i per ora infruttuosi prenegoziati segreti tra Mosca e Washington, dai quali Kiev teme a ragione di essere scavalcata. Il caso Prigozhin ha fatto traboccare il vaso.
Esasperato, a fine giugno il capo delle Forze armate ucraine, generale Zaluzhny, ha confessato al Washington Post di non poterne più di sentirsi ripetere dagli alleati l’avvertimento di risparmiare il territorio russo: «Bene, dovremmo arrenderci?». Osservazione intelligente. Zaluzhny mette gli americani di fronte alle conseguenze dell’eventuale crollo ucraino: sul piano strategico a perdere sarebbero loro.