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 2023  luglio 17 Lunedì calendario

Tutti i nemici di Draghi

Che le cose stiano per precipitare, Francesco Giavazzi lo intuisce in un pigro pomeriggio di luglio. È mercoledì 13 di un anno fa. Le strade attorno a Palazzo Chigi sono piene di tassisti inferociti. L’aria è densa dei lacrimogeni della polizia. Il giorno prima, cinque di loro si erano incatenati alle transenne di fronte alla sede del governo. L’ordine della categoria è di manifestare in tutte le città contro il disegno di legge sulla concorrenza. Nelle intenzioni del consigliere numero uno di Mario Draghi, quello è l’atto che dovrebbe rendere il settore meno protetto. Un miraggio che il Paese insegue da un lustro.
Di lì a pochi giorni l’ex banchiere centrale sarà costretto a salire al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Accade il 21 luglio. La miccia della crisi è un fatto apparentemente minore. Il 29 giugno, in un’intervista al Fatto, il sociologo Domenico De Masi rivela di aver saputo da Beppe Grillo della richiesta del premier di rimuovere Giuseppe Conte da leader dei Cinque Stelle. Draghi non si preoccupa di smentire la voce. E d’altra parte è noto anche ai muri dei palazzi che i due - Draghi e Conte - non si amano. Il primo ha scarsa stima del secondo, il leader Cinque Stelle lo tratta come un usurpatore, colui che occupa la poltrona del suo mancato terzo mandato a Palazzo Chigi.
La fine del governo Conte bis e l’ascesa dell’ex banchiere centrale è in realtà prodotta da ben altro. Dalla calcolata volontà di Matteo Renzi - che sin dall’inizio del pronostica pubblicamente di farlo durare un solo anno - e da Sergio Mattarella, che si è convinto della necessità di una larga coalizione per affrontare l’emergenza della pandemia. Il governo giallorosso entra in crisi quando la campagna contro il Covid è al palo. La media delle vaccinazioni quotidiane è ferma a ottantamila. A quei ritmi, per superare l’emergenza sarebbero necessari un paio d’anni. La struttura commissariale di Domenico Arcuri arranca, inseguita dalle polemiche per gli inutili banchi a rotelle acquistati alle scuole e le voci di appalti opachi per le mascherine in Cina. Gli italiani attendono invano la costruzione di prefabbricati a forma di primula nelle piazze italiane. Il primo atto di Francesco Paolo Figliuolo, scelto da Draghi per superare l’emergenza, è smantellare quel progetto dal sapore propagandistico.
L’emergenza Covid è il primo dei tre grandi problemi che Mattarella chiede a Draghi di affrontare. Occorre rimettere mano al Recovery plan negoziato da Conte con l’Europa nei mesi precedenti, e c’è da far ripartire l’economia, devastata dalla crisi più grave dal Dopoguerra. Ogni volta che il mandato di Mattarella costringe il premier a toccare i nervi scoperti del sistema Italia, i partiti lo metteranno in difficoltà. Accade quando Draghi sfida la ritrosia dei sindacati della scuola a riportare gli studenti in classe, invece di riaprire i ristoranti, come vorrebbe la destra. Avviene quando Draghi imposta la riforma del catasto e del fisco, accade quando tenta (senza successo) di tagliare i superbonus edilizi e quando - qui siamo già alla fine della storia -, il governo decide di dare il via libera al termovalorizzatore di Roma, vuole mettere a gara le concessioni balneari e scrivere la riforma della concorrenza, a partire dalla liberalizzazione dei taxi.
Torniamo un momento all’immagine della rivolta di un anno fa, un fatto che - visto con gli occhi dell’oggi e delle proteste per le lunghe file di quest’estate - spiega bene la parabola di Draghi. Nei corridoi di Palazzo Chigi, Giavazzi è affettuosamente ribattezzato Gandalf, il saggio del Bianco Consiglio che ne il Signore degli Anelli combatte il male nella Terra di Mezzo. Più prosaicamente, Giavazzi è l’uomo di fiducia di Draghi, l’amico di una vita che ha in mano i dossier più importanti. Quello della concorrenza è il più difficile da risolvere. Draghi ci prova fino all’ultimo, sotto la spinta di Mattarella che - nei limiti della Costituzione - lo invita a governare al massimo dei suoi poteri dalle dimissioni fino alle elezioni.
Il 15 settembre, a dieci giorni dal voto, Draghi porta in Consiglio dei ministri il decreto legislativo sulla mappatura delle concessioni balneari, una faccenda per cui è in piedi una procedura di infrazione europea da dieci anni. Ebbene, pur avendo gli scatoloni pronti, per marcare la distanza l’allora ministro leghista Massimo Garavaglia minaccia il gesto poco più che simbolico delle dimissioni. Il caso - o forse decisamente no - vuole che il suo posto nel nuovo governo venga occupato dal socio storico di Flavio Briatore al Twiga di Marina di Pietrasanta, Daniela Santanché.
In fondo la sorte del governo Draghi non è dissimile da quella toccata - dieci anni prima - a Mario Monti: non appena l’emergenza viene meno, i partiti si riprendono lo spazio politico consegnato pochi mesi prima al premier tecnico. Qui val la pena sottolineare alcune differenze: il governo Monti dura 529 giorni, quello di Draghi 616. Monti è chiamato a ridurre la spesa dopo una grave crisi finanziaria, Draghi ha l’opportunità di aumentarla. Il primo lascerà il Paese ancora in recessione, il secondo in robusta ripresa. Entrambi vengono congedati nel tentativo di aumentare il livello di concorrenza nei mercati protetti. La differenza più rilevante è in due fatti politici che segnano i venti mesi vissuti pericolosamente da Draghi: l’elezione del successore di Mattarella e la guerra in Ucraina.
«Sono un nonno al servizio delle istituzioni», si lascia scappare Draghi nella conferenza stampa del Natale 2021. Quale che sia l’intenzione della battuta, appare a tutti come un’autocandidatura. Da quel momento il rapporto con i partiti non è più lo stesso. «Mario, qui nessuno mette in dubbio la tua malafede», è il lapsus di Antonio Tajani nell’ultimo incontro con Forza Italia e Lega il 19 luglio, due giorni prima delle dimissioni. Così come con Conte, nemmeno il rapporto fra Draghi e il coordinatore di Forza Italia è mai decollato. Ma la battuta è significativa: quello è il momento in cui la delega del partito di Berlusconi e della Lega viene meno. A nemmeno un mese dall’intervista di De Masi, i problemi coi Cinque Stelle sono l’alibi perfetto per portare il Paese alle elezioni. Il paradosso della storia vuole che Giorgia Meloni assista impotente alla crisi: fosse dipeso da lei, Draghi avrebbe dovuto governare fino alla fine naturale della legislatura, nell’estate del 2023. Fosse dipeso da lei, molte delle grane del Recovery Plan avrebbero dovuto essere gestite finché possibile dall’ex banchiere centrale. «O noi, o i Cinque Stelle», è l’aut aut che la ditta Salvini-Tajani impone a Draghi. Ma si tratta di una finta alternativa: senza i Cinque Stelle al governo sarebbe venuto meno anche il sostegno del Partito democratico di Enrico Letta, che Draghi aveva incontrato poche ore prima.
A un anno dalla fine di quel governo, oltre ad alcuni e indubbi successi, resta in piedi un’eredità raccolta da Meloni e da coloro che diventeranno vice a Palazzo Chigi: il sostegno senza sfumature all’Ucraina e la fine della dipendenza italiana dal gas russo. Lo testimoniano due fatti: la nave rigassificatrice oggi ormeggiata di fronte al porto di Piombino, contro la quale si era scagliato il sindaco di Fratelli d’Italia, e la fine delle uscite ambigue di Salvini a favore di Putin. Nei venti mesi vissuti pericolosamente a Palazzo Chigi, Draghi ha dovuto fare i conti anche con gli scossoni causati da un viaggio a Mosca programmato per il leader leghista dall’ambasciata a Roma. In venti mesi Draghi è riuscito a sconfiggere il putinismo di governo, non ha nemmeno scalfito il corporativismo.