il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2023
Il caso Rupnik
Il caso di Marko Rupnik mette in luce una grande questione, largamente elusa: quale può essere, oggi, il rapporto tra Chiesa e arte?
Non era forse mai successo che un singolo artista riuscisse a pervadere, non con il suo stile (lo avevano fatto Donatello, Michelangelo, Canova: e Bernini più di tutti) ma proprio con le sue opere (oltre 220, alcune grandissime) lo spazio liturgico di tutti i continenti: ebbene, il gesuita sloveno Rupnik ci è riuscito grazie a una indiscutibile capacità imprenditoriale, e soprattutto al favore degli ultimi tre papi. Dalla cappella Redemptoris Mater in Vaticano ai santuari di Lourdes e Fatima, dalla cattedrale di Madrid ai santuari dedicati a san Giovanni Paolo II a Cracovia e a Washington, dal santuario dell’Aparecida in Brasile alla Chiesa della Madonna della Croce del Sud a Brisbane, migliaia e migliaia di cattolici celebrano l’Eucarestia di fronte alle figure, tutte uguali, uscite dalla fantasia e dalla teologia di padre Rupnik.
Da qualche mese, tuttavia, cominciano a serpeggiare nella Chiesa i primi dubbi su questa sorta di arte ufficiale del cattolicesimo del XXI secolo. A farli emergere è stata la peggiore delle ragioni: la testimonianza concorde di oltre venti donne e il tenace lavoro giornalistico di Federica Tourn su Domani hanno accusato l’insigne artista-teologo di abusi psicologici e sessuali, perpetrati, lungo decenni, attraverso la sua influenza di direttore spirituale. Il suo ex superiore gesuita Johan Verschueren ha dichiarato che la credibilità delle accuse “è molto alta”: per alcuni abusi c’è stato un verdetto di colpevolezza da parte dell’Ordine, e quindi una serie di provvedimenti da parte della Congregazione per la dottrina della fede (che rese, per esempio, noto che Rupnik era incorso nella scomunica per aver confessato e assolto una sua vittima). Dopo l’aggravarsi del quadro (alcune donne hanno riferito di essere state indotte a rapporti a tre “in onore della Trinità”, e altre enormità) il 9 giugno scorso, l’artista è stato espulso dalla Compagnia di Gesù, e gli è stato revocato il dottorato ad honorem dell’Università pontificia del Paraná.
Di fronte a questa catastrofe, ci si è cominciati a domandare se sia possibile lasciare le sue opere là dove stanno: per esempio a Lourdes, dove si recano a pregare proprio le vittime degli abusi del clero. Pochi giorni fa, dal Vaticano è filtrata la notizia che una riunione del Dicastero delle Comunicazioni avrebbe stabilito “che nulla impedisce l’uso continuato dei mosaici di Rupnik: l’opera d’arte va giudicata per i propri meriti, e deve essere dissociata dalla vita personale dell’artista”.
La seconda parte della frase, così laica e secolare, apre una serie interessante e notevole di problemi. Nessuna opera sarebbe rimossa da un museo a causa dei misfatti del suo autore (almeno entro certi limiti, larghi ma non inesistenti): ma una chiesa non è un museo. Proclamando Beato Angelico patrono degli artisti, Giovanni Paolo II disse che “Cristo parla della ‘luce delle opere buone’. Andando oltre – nella sfera della vocazione artistica – si potrebbe parlare con buona ragione della “luce delle opere umane”. Questa luce è la bellezza; la bellezza infatti, come “splendore della forma”, è una luce particolare del bene contenuto nelle opere dell’uomo-artista. Anche sotto quest’ottica, si può comprendere e interpretare la frase di Cristo … : “Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produce frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere” … La Chiesa presenta lo stesso invito alla meditazione di tutti gli artisti dicendo: cercate adeguata proporzione tra la bellezza delle opere e la bellezza dell’anima”. Parole che non possono non pesare, oggi, come macigni.
Ma è la prima parte del sunto delle posizioni vaticane ad essere davvero interessante. Quali sono i meriti dell’arte di Rupnik? Nel famoso discorso di Paolo VI agli artisti (1964) la Chiesa riconobbe le sue mancanze verso l’arte del Novecento: “Siamo andati anche noi per vicoli traversi, dove l’arte e la bellezza e – ciò che è peggio per noi – il culto di Dio sono stati male serviti”. Ebbene, i mosaici di Rupnik, che partono dalle icone bizantine (ma che in realtà mancano del tutto della loro capacità di rivelare, e fare sentire presente, il Prototipo) per omogenizzarle in una serialità da pop art che non ha davvero nulla di spirituale, appartengono alla patologia descritta da Montini, o ne sono la cura? Quelle figure tutte simili, dalle inquietanti pupille scure, sono davvero un’apertura all’arte di oggi, o sono un surrogato curiale imposto da Roma a tutta la cattolicità, uccidendo quella diversità, quell’esser personale, che è inseparabile dal fare arte? E su tutto questo che, finalmente, si dovrebbe discutere.