il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2023
Intervista a Marianna Mazzucato
Sono passati dieci anni dall’uscita di The Entrepreneurial State (“Lo Stato innovatore”). Il libro dell’economista Mariana Mazzucato (oggi fondatrice e direttrice dell’Institute for Innovation and Public Purpose) fece molto discutere e da quell’estate 2013 molto è cambiato.
Professoressa Mazzucato, cosa la spinse a scrivere un simile libro in quel momento?
Decisi di farlo in seguito alla crisi finanziaria globale. Ai tempi circolava la vulgata secondo cui per riprenderci dalla crisi bisognava diventare innovativi come gli Usa. La domanda era: perché Apple, Google, Facebook sono tutte lì? E la risposta che ci si dava era che gli Usa avevano il venture capital privato e il genio dell’imprenditore da garage. Io volevo demistificare questa finta narrativa del rapporto fra pubblico e privato nella Silicon Valley. Ho cercato di dimostrare come gran parte dell’innovazione tecnologica che ha trainato lo sviluppo dell’economia Usa sia arrivata dall’attivazione di una serie di organizzazioni pubbliche mission-oriented. Lo Stato innovatore americano non è un opprimente Leviatano, ma è fatto di una rete decentralizzata di agenzie governative che operano lungo tutta la catena dell’innovazione. Non solo quindi il finanziamento della ricerca di base (in un’ottica di fallimento di mercato), ma anche la ricerca applicata, il venture capital pubblico (per esempio tramite In-Q-Tel, il fondo di Vc della Cia), il procurement con i fondi Sbir.
Quale è stato l’apporto dello Stato che ha generato processi di innovazione?
Direi tre elementi. Primo, non era solo a monte, ma distribuito lungo tutta la catena dell’innovazione. Secondo, aveva una visione di lungo periodo. Terzo, era mission-oriented, con l’obiettivo di risolvere problemi di natura militare. Solo lo Stato può contemperare tutti questi aspetti. Ma ora si deve fare un salto e portare quell’orientamento ai problemi fuori dal complesso militare-industriale, verso le sfide “civili” del divario digitale, della salute, dell’ambiente.
Perché il governo Usa era predisposto a farlo?
Non lo era, ha dovuto investire nelle sue capacità. Questa è la precondizione per i tre elementi di prima. Ecco perché oggi lamento il rischio, e lo ribadisco nel nuovo libro The Big Con (“Il grande imbroglio”, che uscirà a ottobre in Italia, nda), che gli Stati smettano di investire nelle competenze del settore pubblico.
Quale è l’aspetto del libro che ritiene più innovativo?
La questione dei rischi e dei ritorni per lo Stato. Uno Stato a cui viene riconosciuto il ruolo di “innovatore” deve potersi assumere dei rischi. Questo implica la possibilità del fallimenti, che vanno accettati come parte del rischio. Ma quando le cose vanno bene (come nel caso di Tesla e in quelli citati nel libro), quali devono essere i ritorni per lo Stato? Non intendo solo ritorni finanziari, ma anche tutta una serie di benefici legati alla tutela dell’ambiente e al rispetto degli standard lavorativi. In questo senso, lo Stato innovatore non deve solo fare innovazione, ma strutturare la forma dei rapporti socio-economici.
Cosa è cambiato in questi 10 anni? I piani di investimento di Biden e dell’Ue sono una conferma dell’approccio dello Stato innovatore?
Credo che il lavoro sullo Stato innovatore abbia influito positivamente sull’emergere di questi programmi e su tutta la narrativa. Un tempo dovevo spingere l’argomento dell’investimento pubblico, ora non più. Ma il diavolo è nei dettagli. In molti dicono che lo Stato innovatore è tornato, però attenzione. È tornato in termini di risorse pubbliche destinate alle imprese, ma ci sono le capacità e l’orientamento ai problemi? I piani triliardari di Usa e Ue vogliono facilitare l’investimento in specifiche attività, riducendo il rischio d’impresa. Ma dietro alle parole “facilitare” e “de-risking” si cela un altro rischio: che questi trasferimenti indiretti possano tradursi in maggiori profitti per le imprese, con un effetto complessivo sugli investimenti minore di quello che si avrebbe con un intervento diretto dello Stato. In parte è il caso di Transizione 4.0 in Italia.
Quali sono le lezioni per l’Italia? C’è possibilità di uno Stato innovatore?
Primo, investire nella macchina dello Stato. Basta esternalizzare ai consulenti i compiti che spettano alla P.A.. Il che non vuol dire smettere di lavorare col privato. Anzi, è una condizione per farlo meglio senza essere catturati da interessi particolari. Secondo, sviluppare piani strategici di lungo periodo allineati agli obiettivi di sostenibilità dell’Onu, coinvolgendo la cittadinanza e le parti sociali, in modo che non siano calati dall’alto. Terzo, un maggiore coordinamento del sistema di imprese a partecipazione pubblica per valorizzarne il potenziale in chiave di politica economica. Quattro, puntare su un sistema di innovazione pubblico, in cui ciascuna istituzione ha un compito specifico, ma in un’ottica di sistema orientato a degli obiettivi. La somma è maggiore delle parti in un sistema nazionale di innovazione.