il Giornale, 17 luglio 2023
Intervista a Giuseppe Tornatore
Nuovo cinema Tornatore. Fotogrammi dal paradiso. Crocevia di arte e poesia, sequenza ininterrotta di immagini che uniscono passato e presente. Più di ogni altro, il regista siciliano – al quale è stata dedicata una retrospettiva alla recente Mostra del cinema di Pesaro che nel 2024 sarà capitale della cultura – è l’autore che ha lavorato con l’industria e i criteri di uno ieri percepito come lontanissimo. Addirittura perso nella valle dei tempi. Allo stesso modo, ha saputo però adattarsi all’era postmoderna, restando abilmente un passo indietro alle deformi e malandate espressioni di tanti film che faticano a trovare una propria identità individuale e un posto nel panorama della cinematografia internazionale. L’autore siciliano si identifica così con un mondo che non esiste più, proponendo però temi e spunti che hanno trovato, nei decenni, una personale chiave di sviluppo e sempre viva attualità. Dal paradiso di un cinema ricavato in una chiesa fatiscente ai pensieri di una Sconosciuta, dalla voce lontana e perduta di un pianista sull’oceano al ritratto di una Bagheria a metà del Novecento fino alle lettere di un uomo assente ne La corrispondenza. Storia e vita si mescolano con tratti autobiografici in un percorso sincopato e ricco di bruschi cambi di direzione che forse poi tanto violenti non sono. Anche se lo sembrano.
Maestro, che effetto le fa guardarsi indietro?
«Mi sorprende e scopro una dimensione bellissima».
Quale?
«Accorgermi che tanti miei film, sentiti l’uno come il tradimento dell’altro ne siano invece l’evoluzione. Ero convinto di aver camminato a zig zag e i critici mi mostrano che c’è stata coerenza. Stupendo».
Perché si ritiene il traditore di se stesso?
«Ho sempre avuto il complesso dell’opera prima. E ultima».
In che senso?
«Negli anni dei miei esordi ricordo molti film di colleghi al debutto che, per mancanza di riscontro di pubblico, non avevano un seguito. E l’opera prima restava anche l’ultima».
Come ha sconfitto questo complesso?
«Ho creduto di diversificare i generi e fare opere differenti l’una dall’altra. Così che fosse sempre un nuovo inizio».
E una sfida senza precedenti.
«Penso che il timore di affrontare una novità sia il miglior compagno di viaggio. Certezza e sicurezza non lo sono altrettanto. Invece».
Invece
«Eccomi qui a scoprire la continuità che non credevo di avere».
Faccia un esempio.
«Mi ero sempre detto di voler evitare film personali e privilegiare opere oggettive».
E «Il camorrista» era in linea con questo pensiero.
«Appunto. Poi però è venuto Nuovo cinema paradiso».
Cioè un capolavoro.
«Ma era il film personale che volevo rinviare».
In che senso?
«Pensavo di farlo come quarto o quinto, per avere più esperienza. È stato un azzardo».
Un successo più che un azzardo.
«Pensi che all’inizio non fu applaudito. Lo giudicarono lungo e prolisso. Ho deciso di tagliarlo di una decina di minuti ma abbiamo dovuto aspettare il passaggio a Cannes perché fosse capito».
Una delusione cocente, all’epoca.
«In realtà non avevo mai pensato di fare qualcosa di grande. Era importante per me perché era la mia vita».
Raccontava il suo passato di proiezionista al cinema di Bagheria.
«E ci tenevo talmente tanto che rinunciai perfino a tutti i miei compensi. Mi bastava farlo. Se questo non è stato un tradimento dei miei propositi».
Poi qualcosa guadagnò.
«Franco Cristaldi, mio produttore di allora, rimase sbigottito e nel contratto dispose una piccola partecipazione ad eventuali utili per me. Il film fu un successo e recuperai ciò cui avevo rinunciato».
E arrivò l’Oscar.
«che quella sera strappai di mano proprio a Cristaldi (ride)».
Come, rubò la statuetta?
«Mi avvertirono che lui andava famoso per anticipare la consegna. Così a me sarebbe toccata la copia. Invece, quella sera, salii per primo sul palco e la copia andò a lui».
Primato da velocista.
«Il record mondiale fu il mio discorso. È rimasto il più sintetico nella storia degli Oscar».
Come mai?
«Il conduttore sbagliò a leggere il vincitore e ci fu un attimo di disorientamento. Poi si corresse e io ebbi solo il tempo di dire Thank you. Il trionfo finì lì».
Che cosa le resta di quel film?
«Tutto. I ricordi di un tempo. La sala con la gente che fumava, l’omino che vendeva bruscolini, il pubblico che restava in sala con i bambini per due o tre spettacoli, le donne che allattavano mentre guardavano il film».
Sapori.
«La parte di pellicola con la gelatina. Mi insegnarono a leccarla per distinguerla ma presto imparai a riconoscerla allo sguardo. Era più opaca, il retro invece era lucido. E finalmente smisi di mangiarla».
E odori
«La colla per unire i tagli, quella che tutti definivano acetone solo perché sapeva di aceto. Ma non era vero. Nel film, ho cercato di riprodurre tutto questo».
Vita che diventa settima arte.
«Il mio coproduttore Alexandre Mnouchkine, cui mi lega un affetto inossidabile, mi insegnò che tutto quello che succede sul set e viene riprodotto con onestà e fedeltà arriva più genuinamente al pubblico».
Anche nei sentimenti, allora.
«Mi insegnò a costruire set gioiosi dove possibilmente nascessero storie d’amore. E di tresche, sul set di Nuovo cinema paradiso ne fiorirono molte. Anche per questo forse ha avuto successo (ride)».
Che sensazione ricorda di quella sera a Los Angeles?
«Fu come fare la prima comunione che non ho mai ricevuto».
Niente sacramenti per lei?
«Non fu una scelta ideologica. Mio padre era un anticlericale che militava nel Pci, mia madre e mia nonna erano molto religiose».
E lei?
«Io feci catechismo per prepararmi alla comunione ma mi annoiava così tanto quell’ora di religione che rinviai la cerimonia e poi non l’ho più fatta».
E scommetto che da allora ha scantonato le chiese.
«Curiosamente sia a scuola che altrove ho avuto un bellissimo rapporto con tanti preti che oggi sono miei grandi amici».
Ma la comunione mai più fatta.
«Uno di loro mi aveva quasi convinto ma poi mi dissi che forse a sessant’anni era un po’ tardi».
Nemmeno quando si è sposato?
«Mi lasci pensare».
Nozze civili, forse.
«Ah sì, certo. Io e mia moglie convivevamo già da tempo, lei mi convinse e io posi una sola condizione: che non ci fosse nessuno».
A parte i testimoni, ovviamente.
«Esatto, due soli. Ennio Morricone e gentile signora».
Il documentario è stato l’atto di amore per un amico.
«Eravamo molto intimi e ci frequentavamo con le famiglie. Un rapporto bello e forte nato però da motivi professionali».
Una prospettiva confidenziale che s’intuisce dalle prime scene dove l’indimenticato musicista faceva ginnastica
«Erano esercizi che facevamo insieme, distesi sul tappetino con i piedi sul muro di casa sua».
Però purtroppo non fece a tempo a vederlo finito.
«Vide solo la prima imbastitura di un’ora con i buchi neri per gli inserti. E rimase toccato dalle immagini del suo maestro».
Che cosa le disse?
«Hai fatto bene a metterle. Poi si commosse. L’unico rimpianto è non essere riuscito a farglielo vedere finito. Ne ha visti tanti, tranne quello che lo riguardava direttamente».
«Ennio» non è il suo unico documentario. Che cosa le piace di questo genere?
«Dà una libertà che il cinema non può dare. La sceneggiatura di tante storie non si può modificare se non in piccoli punti. Il doc è un lavoro in divenire».
È il film che le è costato di più come emozione?
«Ognuno mi ha regalato qualcosa. Il camorrista fu l’esordio. La notte precedente al primo ciak non chiusi occhio».
Ma è vero che all’epoca lei girò pure una serie tv che non andò mai in onda?
«Verissimo. Aveva lo stesso cast e i medesimi protagonisti. Non fu mai trasmessa perché il film ebbe disavventure giudiziarie e i produttori decisero di non voler correre altri rischi. Ora è riemersa dai cassetti e presto apparirà ma non so ancora bene dove. Ero in anticipo sui tempi».
E fu tra i primi film di Reteitalia di un rampante Silvio Berlusconi. Che rapporti aveva con lui?
«Non ci siamo mai conosciuti di persona. Ma tengo a dire che è stato corretto e non ha mai fatto pressioni o critiche. Nemmeno quando Medusa produsse Baaria».
Si disse che era comunista.
«Si dissero tante cose non vere. A cominciare da questa e dagli strali di Berlusconi. Tutte falsità. In Baaria avevo ricostruito il mio quartiere settant’anni dopo, in modo pignolo e puntiglioso».
Come in «Nuovo cinema paradiso».
«Di quella vita sono ancora profondamente innamorato».
Che cosa ha imparato facendo il proiezionista?
«Un film orrendo ha lo stesso diritto di un capolavoro a una riproduzione tecnicamente perfetta. È la vera democrazia del cinema».
Ci va spesso?
«Due o tre volte alla settimana. Prima più frequentemente, ora gli impegni».
Sala o piattaforma?
«Che cosa vuol dire la seconda parola?».
Me lo dica lei.
«Non amo il video piccolo. Sono legato a un mondo che non c’è più, ai dvd e blu ray che colleziono e proietto nella mia saletta cinematografica da 15 persone. La utilizzo pure per lavoro perché guardo sempre tutto su uno schermo grande».
L’ultimo film visto?
«Il ragazzo sul delfino di Jean Negulesco. Non un capolavoro ma una Sophia Loren così bella non l’avevo mai notata».
Diciamolo: non le è piaciuto.
«Ogni film ha qualcosa che ne consolidi il ricordo. Una sequenza straordinaria. Una colonna sonora. Un attore. Un’idea».
Allora Rossellini aveva torto?
«Non basta azzeccare la prima e l’ultima sequenza perché il film sia bello ma davanti a un’opera mediocre non serve l’offesa o la stroncatura. Basta un giudizio sereno che non significa falso».
Domandona delle cento pistole: prossimi progetti?
«Ne ho un paio in cantiere ma non ne parlo. Porta troppa sfortuna».
Superstizioso?
«Affatto, solo brutte esperienze. Ogni volta che accenno qualcosa, inevitabilmente succede chissà cosa e tutto si arena».
Ad esempio?
«L’assedio di Leningrado. Me lo offrì Alberto Grimaldi perché Sergio Leone non riuscì a farlo. Rimase irrealizzabile».
Digitale o pellicola?
«Li ho e li uso entrambi. Il primo sembrava aver reso eterna la seconda. Oggi con i progressi tecnici sembra che la seconda possa rendere intramontabile il primo. Paradossale».
Ma certi film non è meglio dimenticarli?
«Guardi, io tifo sempre per la vita. A me stanno tutti simpatici per il solo fatto di esserci. Mi rammarico per quella fetta di cinema muto che è andato perso. Tutti abbiamo il diritto di esistere».