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 2023  luglio 17 Lunedì calendario

Ritratto di Piergiorgio Maoloni, l’architetto dei giornali

«Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano».
Ecco, io un uomo che lavorava con questo senso etico, raccontato da Charles Peguy, ho avuto la fortuna di conoscerlo e di averlo come maestro: non costruiva sedie, ma progettava giornali, era Piergiorgio Maoloni, scomparso nel 2005, uno dei padri più significativi della grafica italiana che con il suo lavoro segnò la storia del giornalismo e della comunicazione.
«Per fare un lavoro bene o per farlo male ci vuole lo stesso tempo, allora tanto vale farlo bene». Così era solito dire Piergiorgio a noi, quando ci correggeva i lavori, perché una cosa Maoloni, l’architetto dei giornali, non sopportava, il pressapochismo. Nel suo studio romano o nel cuore pulsante di una redazione, il suo obiettivo era sempre lo stesso, capire dal suo interlocutore come restituire al meglio, graficamente, il messaggio che il giornale in costruzione voleva trasmettere.Quindi, nel lavoro, esigeva il massimo rigore possibile, sconsigliando facili scorciatoie, ma sempre con una battuta, da uomo gentile quale era, che stemperasse la tensione.
Nel suo progettare c’era una forma di pedagogismo, rivolto sia al giornalista che al lettore. Ordinato, intransigente nella tipografia, cercava di affinare gli elementi che componevano il disegno della pagina al fine di esprimere al meglio il messaggio. Il disegno era sempre semplice e intuitivo; partiva da pochi elementi di base connotanti il progetto e con questi cercava di reinventare nuovi schemi, dando al quel foglio bianco di giornale un ritmo di pause e fughe, proprio come in una composizione musicale. Quel rispetto che ci chiedeva nell’affrontare un lavoro era segno di una serietà e di una conoscenza che applicava ogni volta che si trovava a scegliere una font per un progetto, rispettandone la storia, gli spazi tipografici, la funzione, così che l’insieme fosse funzionale alla comunicazione tralasciando ogni forma estetizzante.
Penso che la sintesi più efficace di questo discorso, dove elementi tipografici e immagine concorrono a comunicare il messaggio, sia la celebrazione per lo sbarco sulla luna del 21 luglio 1969. Il giovane Maoloni mette le mani sulla prima pagina delMessaggero e mette la parola “LUNA” enorme, in un carattere bastoni, sotto l’impronta della scarpa di Amstrong, il primo uomo a sbarcare sul suolo lunare, ribaltando il rapporto tra testo, immagini e titoli ed innescando una vera e propria rivoluzione grafica nel mondo dei giornali. Al punto che quella prima pagina del quotidiano romano è entrata a far parte della collezione del Moma di New York.
Capì che le grandi fotografie nonpotevano essere solo ad uso e consumo dei settimanali o dei rotocalchi, ma dovevano entrare a far parte del linguaggio quotidiano. La sua volontà di comunicare l’immediatezza del messaggio, lo portò a dare uno spazio puntuale e significativo in pagina alle immagini, cosa che fino a quel momento era stata sacrificata per il valore del testo. E così iniziò una collaborazione con i grandi fotografi dell’epoca: Mario Dondero, Uliano Lucas, Gianni Berengo Gardin, Tano D’Amico.
Eppure, dal racconto dei suoi amici, in gioventù Maoloni non sapeva neanche cosa fosse il mestiere di grafico. Nato a Orvieto nel 1938, vent’anni dopo, mentre frequentava la facoltà di Architettura a Roma, la vittoria del concorso per il miglior diario di campeggio indetto dal Centro Turistico Giovanile sancì l’avvio della sua carriera. Da quel momento, fino al giorno dellasua scomparsa, sarà un protagonista indiscusso tra tipografie, redazioni, libri e computer, meritandosi l’appellativo di “architetto dei giornali” e la stima di tutti quelli che avevano lavorato con lui, dai direttori dei grandi quotidiani ai tipografi.
I suoi lavori, riprodotti per migliaia e migliaia di pagine ogni giorno, sono entrati nella nostra quotidianità e nelle nostre case. E così dai suoi pensieri e dalle sue stilografiche hanno preso forma Il Vittorioso, Potere Operaio, I Volsci, Il Messaggero, Paese Sera, Liberazione, Avvenire, Il Manifesto, Il Giornale di Sicilia, L’Unità, L’Ora, l’Unione Sarda, Il Roma, La Stampa, L’Indipendente, Il Sabato, Il Mattino, L’Informazione, Il Giornale, Il Giornale di Brescia, Il Giorno, Zicye Warszawy, Tuttosport e sicuramente molti altri, ma la lista rischierebbe di essere lunghissima. Il suo genio e il suo essere fortemente innovatore, lo hanno spinto ad applicare la sua cultura ad ogni espressione editoriale: hanno visto la luce riviste come Sfera, Eupalino, Materia, Medicina dossier, Rinascita, Extra, Carta, Noi Donne, Il Gambero Rosso, perfino il settimanale satirico Cuore, e collane di libri, manifesti per il sindacato, la Biennale di Venezia, Il Duomo e il Comune di Orvieto, fino ai primi esordi di internet.
Un fantastico mondo, all’insegna del binomio “funzione” e “bellezza”. In alcune riviste era ancora più evidente questo tema per cui, in ogni singolo numero pubblicato, la fusione tra parole, immagini e invenzioni grafiche diventava armonica, nulla era lasciato al caso e tutto concorreva a dar vita a un’opera d’arte unica.
Attingeva, appuntava, sottolineava, studiava: ecco, Piergiorgio, studiava, aveva il grande dono dell’ascolto. Nel suo studio, come un novello Freud, ha ascoltato e psicanalizzato più direttori lui di un analista, tutti in cerca della pietra filosofale, che lui poco alla volta faceva emergere e da quei mille spunti traeva le fondamenta per realizzare la sua cattedrale.
La sua idea di lavoro era ben chiara e capiva che per raggiungerla doveva trarre da ognuno il meglio del suo sapere. Fino agli anni Novantagli strumenti del grafico erano derivati dal lavoro dell’architetto: dal tavolo luminoso, al tecnigrafo, al rapidograph, fino alle cianografiche, tutto si faceva a mano, era un lavoro artigianale.
Il risultato finale risiedeva nel dialogo-confronto continuo tra grafico e tipografo. Pur avendo i piediben piantati nella cultura umanistica, a conferma delle sue origini, era attento a ogni movimento tecnologico portatore di nuove soluzioni, tanto che quando verso la fine degli anni Ottanta sentì parlare del Mac, volammo a San Francisco per conoscerlo e da allora diventarono inseparabili.
L’architetto Paolo Portoghesi, suo amico, che lavorerà con Maoloni ai progetti della Biennale e poi alla progettazione delle riviste Eupalino e Materia, lo ricorda così: «Lo scambio con lui era totale, accomunati dalle stesse passioni, il suo genio si metteva all’opera attingendo a un archivio mentale ricchissimo di sapere e di citazioni non solo grafiche. Nelle nostre lunghe chiacchierate raffinavamo il saputo, alla ricerca di nuovi spunti, passavamo da un mobile di Josep Hoffmann a un tessuto di William Morris, da un progetto di Aldo Rossi ad una poesia di Attilio Bertolucci per approdare a Debussy e alla sua musica. In fondo il suo approccio mi affascinava, rivedevo in lui lo spirito secessionista viennese, periodo fecondo che entrambi amavamo. Lui cercava e restituiva il valore complessivo delle arti, di tutte le arti, in simbiosi con l’uomo e con i luoghi della sua vita».
Il suo lavoro lo portò in giro per il mondo, ma Maoloni da grande orvietano quale era, appena poteva tornava nella sua città umbra. Negli anni Novanta l’amministrazione comunale gli chiese di pensare un logo e un claim che descrivessero la città, mi piace pensare che volle unire le sue origini e il suo lavoro in quella che fu poi la frase scelta: “Orvieto città narrante”. In fondo era la sintesi del suo percorso, lui aveva mantenuto le sue origini e passato la vita a riorganizzare le parole della narrazione quotidiana.
Ha ragione da vendere l’architetto Portoghesi quando una sera tra amici, proprio a Orvieto disse: «Il genio creativo di Piergiorgio va divulgato, fatto conoscere. Il suo lascito culturale e professionale va trasmesso ai giovani e deve fare scuola».
Per questo, dovremmo vincere ladolce ritrosia di Piergiorgio, regista assoluto ma sempre nascosto dietro le quinte, e far conoscere la bellezza pedagogica del suo modo di progettare. Un vero e proprio maestro come da tempo non se ne vedono più, un passato intenso di avvenimenti superato troppo velocemente dalle mode. Un maestro come lo sono stati, Steiner, Munari, Castiglioni, Trevisani, Mari, e molti altri che hanno contribuito con il loro genio, alla grande scuola della grafica italiana. Un’ Italia che non va dimenticata e a cui guardare per costruire un presente meno superficiale. Come ha scritto Chiara Athor Brolli nella sua meravigliosa e preziosa tesi universitaria a lui dedicata: «L’impegno etico che ha sempre dimostrato Maoloni nel suo lavoro, sarebbe un esempio di valore, di motivazione, come la sua infaticabile precisione sarebbe un esempio di competenza».