Corriere della Sera, 17 luglio 2023
Intervista a Jo Squillo
Jo Squillo, cantautrice, conduttrice televisiva e attivista italiana. In una parola?
«Ar-tivista».
Vincenzo Trione ha definito l’artivismo una forma di arte politica per riflettere sulle emergenze del nostro tempo. Su quali emergenze si interroga?
«Su molte, a partire dalle donne, maltrattate, discriminate, uccise. Voglio portare un po’ di impegno proprio dove la gente si aspetta di trovare la leggerezza. Al Grande Fratello ho indossato il burqa, per ricordare la situazione delle donne in Afghanistan».
Quando ha iniziato con l’attivismo?
«Da sempre. Sono nata in un contesto fertile: papà era un rappresentante della Candy e nel privato un artista. Ha inventato i modellini degli aeroplani e costruiva le pipe da fumo».
Milanese da sette generazioni.
«Mi chiamo Giovanna Maria Coletti e sono una delle ultime milanesi doc, nella nostra casa in Città Studi parlavamo in milanese. Mia madre si è occupata di me e mia sorella gemella fino a quando non siamo cresciute, poi ha cominciato a fare la rappresentante di filati».
Sua sorella gemella.
«Ho il naso rotto, una cicatrice, due punti in testa, ma ci volevamo un casino di bene! Eravamo dislessiche: ho scelto l’artistico, lei fotografia. Al corso di scenografia ho capito che non volevo costruire palcoscenici, ma starci sopra».
Sognava il mondo dello spettacolo.
«Non volevo avere un capo sopra di me. Per pagarmi gli studi, a 17 anni, facevo la commessa in una drogheria in viale Lunigiana. Nell’intervallo mangiavamo pane e mortadella di nascosto. Mi ha aiutata ad ascoltare gli altri».
Altri lavori prima di diventare Jo Squillo?
«La cameriera. Lì ho imparato l’umiltà: la sera contavamo i tovaglioli per la lavanderia. Oggi chi conterebbe i tovaglioli sporchi...»
La tipica operosità milanese. «Ho sempre vissuto osservando l’esempio di donne laboriose, quelle del famoso lavoro non riconosciuto, il lavoro di casa».
Nel frattempo lei aveva molte cose da dire...
«Ho iniziato a frequentare il centro sociale Santa Marta. Era la fine degli anni ’70 avevo le chitarre a casa, ho cominciato a scrivere canzoni, la mia prima era “sono cattiva, se la sera mi gira prendo il coltello e ti stravolgo il cervello”».
Oggi questi testi non li potrebbe neppure pensare...
«Era la cultura punk. Avevo la cresta verde, già il green era nella mia testa. Scrivere quelle canzoni era un modo per parlare con la gente. Sono stata una delle prime donne che scrivevano per sé stesse, in quegli anni erano gli uomini che scrivevano per le donne». Non voleva cantare canzonette..
«Una delle canzoni che mi ha stimolato di più è stata Violentami. Una ragazza era stata violentata in metropolitana e la gente diceva che se l’era cercata. Ho voluto ribaltare la visione: noi ragazze non dovevamo essere più né vittime, né colpevoli. Ho pensato: “ah sì? Bene sono io che ti dico di violentarmi, ho ribaltato la logica”». I suoi genitori che le dicevano?
«Solo mia nonna mi comprendeva, perché mi amava. Mi aiutava a disegnare i primi abiti, il kilt e l’impermeabile, e a incollare le scarpe perché le volevo fluorescenti. Il mio maestro era Demetrio Stratos e la mia band le Kandeggina gang: eravamo la generazione del k».
Perché Kandeggina?
«Quando arrivavamo eravamo nocive, sbiancanti come la candeggina. Pulivamo tutto così dopo ci potevi ricostruire un mondo nuovo».
E il nome Jo Squillo? «Gio è diminutivo di Giovanna e in casa avevamo il duplex: una volta per chiamare ci si metteva d’accordo con i vicini. Una linea telefonica aveva due utenze, la vicina ci gridava dalla finestra: “Mettete giù questo telefono!”. Con due gemelle in casa la linea era sempre occupata». Chi era il suo pubblico?
«Avventurieri, femministe e future donne d’affari, gente che voleva costruire un futuro da giornalisti o da scienziati».
Cosa significava per lei essere femminista?
«La libertà. Avevo sperimentato il maschilismo, la sera non potevo uscire perché femmina, invece io lo facevo. Sembra passato un secolo ma non è lontano il tempo in cui non si poteva rifiutare di fare sesso con il proprio marito».
Una milanese che la ispirava all’epoca.
«Alda Merini: diceva che la follia le aveva dato la gioia. Mi ha fatto capire come essere speciali senza sentirsi diversi». Sabrina Salerno con cui ha cantato «Siamo Donne» era una femminista?
«Sabrina non aveva mai cantato in italiano: era famosa in tutto il mondo, una icona pop straordinaria. All’inizio avevo pensato a un progetto di tante donne: una scrittrice, una danzatrice. Poi quando ho incontrato Sabrina ho pensato: io e lei già siamo un mondo».
Era credibile con gli hot-pants sfilacciati?
«Per seguirmi ha accettato di cambiare il suo produttore, che era prototipo di un certo tipo di femminilità e voleva cambiassimo il testo. Dovevamo andare in giro con 10 guardie del corpo».
Oggi vive di royalties? «No, l’industria discografica non è facile. Essere artista dopo i 40 anni è parecchio complicato, tranne che per Orietta Berti e Iva Zanicchi. Le donne devono valere anche per il loro aspetto».
C’è un ageism nel mondo della musica?
«L’industria favorisce il giovane perché può gestirlo. Per fortuna i ragazzi di oggi sono parecchio determinati e hanno le proprie etichette».
Elodie se non fosse così bella avrebbe meno successo?
«Ne sono certa. Devi sempre far vedere, mostrare: questo agli uomini non è richiesto. La maggior parte delle acquirenti di musica sono donne e comperano la musica degli uomini».
In cosa si sente milanese?
«Nella voglia di essere sempre in un cortile. Ho preso una casa che non ha un cortile, ma un terrazzone. Ci ho passato tutto il Covid, facendo dirette musicali con numeri da stadio: siamo partiti in 70, alla fine eravamo 150 mila. Suonavo tutti i giorni dalle 17 alle 18 e ogni sabato sera, con accanto due manichini vestiti e truccati che rappresentavano la mia ballerina e Michelle».
Chi è Michelle?
«Mia figlia, ma in quel momento era in Friuli dai suoi genitori». Ha una figlia adottiva?
«Ho una figlia elettiva. Lei ha una madre, io sono la sua diversamente madre. Quando ho perso i genitori questa ragazza bellissima è entrata nella mia vita e mi ha restituito la vita». Come vi siete conosciute?
«Faceva la modella, si alzava all’alba per prendere quattro soldi e avere la possibilità di sfilare. Ero affascinata da questa ragazza che si “sbatteva”. I miei genitori avrebbero sempre voluto una nipote, me l’hanno mandata loro».
Quando avete deciso che eravate madre e figlia? «Un giorno che non c’era posto in ostello si è fermata a dormire da me. E non se n’è mai più andata. Una mattina in cucina mi ha detto, all’improvviso: “Mamma”. Mi sono messa a urlare, non doveva permettersi. Non ero pronta e sentivo di mancare di rispetto alla sua famiglia. Ma ha continuato imperterrita».
Oggi che rapporto avete?
«Simbiotico: è molto affettuosa, quando non siamo insieme mi manda messaggini scrivendomi che le manco. Sta crescendo con me, come avrei fatto con i miei figli naturali, che non ho voluto per non lasciarli con la baby sitter».
Non ha mai pensato che potesse essere un rapporto d’amore?
«Io no, gli altri sì, anche le persone che mi volevano bene e mi conoscevano da una vita. Ma quando ci vedi insieme, capisci subito che rapporto è. Mi è venuta a trovare al Grande Fratello. Dicevo: “Non piangerò mai”. Per lei ho pianto». Il Grande Fratello.
«Dovevo portare avanti delle battaglie, come quella per Chico Forti, l’italiano che nel 2000 è stato condannato per omicidio negli Stati Uniti. All’Isola invece sono andata quando ho perso ai genitori. Parlavo con la Luna, le stelle, i pesci».
Come fa convivere le due anime, una glitter e una impegnata?
«Una persona mi ha detto che il vero riposo è quando hai lavori diversi: passo dalla sfilata di moda a Wall of Dolls, il centro culturale inaugurato a Milano nel 2014, dopo i fatti di Lucia Annibali e Valentina Pitzalis. È un memoriale di donne vittime di violenza, visitato dai turisti».
Come lo finanzia? «I soldi che guadagno con i concerti li investo tutti nella onlus. Adesso stiamo aiutando a crescere i figli di Daniela Bani, massacrata con 37 coltellate dal marito. Li portiamo in vacanza e controlliamo che abbiano una buona pagella». Ha un patrocinio o ha ricevuto un encomio?
«No, ma non importa».
Il mondo della moda.
«Folle e creativo, racconta chi siamo. Lo vivo con spirito da reporter: ho fatto entrare la gente dove non poteva, nei backstage».
Si sente un’influencer?.
«Quel mondo credo di averlo anticipato: lo facevo in tv, mi vestivo per raccontare un mondo».
Chi sono le sue migliori amiche?
«Francesca Carollo e Giusy Versace, donne impegnate e coraggiose.
Progetti per il futuro?
«Vorrei proseguire documentari, per far capire le sfaccettature della violenza: ho filmato dalle carcerate alle ragazze con i disturbi alimentari. Ora ho in mente le homeless. Presenteremo il lavoro al festival di Venezia».
Cosa manca oggi al femminismo?
«La consapevolezza che insieme vinciamo».
L’esibizione del corpo ci indebolisce?
«Io sono per il topless, da sempre, perché voglio essere libera. Le ragazze oggi mostrano il lato B: il femminismo passa attraverso questo».
Avrebbe voluto essere un uomo?
«No, voglio essere più di un uomo».