Avvenire, 16 luglio 2023
I reduci nella letteratura
La figura del reduce è antica quanto la guerra e ha acquisito più rilevanza che mai nel secolo scorso, in ragione di conflitti di massa al termine dei quali, come ben sappiamo, gli ex combattenti hanno contribuito a determinare crisi sociali e politiche profonde. La Prima guerra mondiale segna lo spartiacque decisivo, con un grado di brutalità tanto dirompente e inedito che le testimonianze dei soldati dichiarano prima di tutto l’impossibilità di esprimerlo a parole. E inauditi si sono rivelati gli effetti fisici e psichici subiti da chi vi aveva preso parte.
La letteratura fa propria questa lacerazione e fra i primi rilevanti riscontri c’è La signora Dalloway di Virginia Woolf, pubblicato nel 1925, di cui ritoran in libreria l’edizione nei Classici della UE Feltrinelli, ben introdotta dalla curatrice Nadia Fusini. Nel romanzo, ambientato esattamente cento anni fa, nell’estate del 1923, troviamo Septimus, il deuteragonista, un trentenne che al ritorno dalla guerra ha perso la ragione e delira, dialoga con l’amico che vi ha perso la vita, parla fin da subito di uccidersi. È affetto da attacchi di panico, allucinazioni e orripilanti incubi a occhi aperti per cui di continuo gli pare che ogni cosa vacilli e minacci di esplodere. Non sopporta la falsità e le menzogne che coglie nelle persone. “Via dalla gente, allontanarsi dalla gente” dice a sé stesso. Sua moglie vorrebbe un figlio ma lui pensa che “non si possono fare figli in un mondo così”.
Dal momento in cui era partito le cose non sono cambiate poi molto. È lui a non essere più lo stesso, incapace di inserirsi e identificarsi in un mondo che ora gli sembra privo di senso. Finché sempre più ossessionato dai propri fantasmi, da delitti che crede di aver commesso anche se non sa dire quali, si risolve a togliersi la vita gettandosi da una finestra.
Septimus e la protagonista non si incontrano mai ma, come sottolinea Fusini, in lui l’autrice concentra il polo negativo, con l’intento di esprimere il dualismo vita/morte, sanità/pazzia. Entrambi vedono una realtà nascosta, che per Clarissa Dalloway è meraviglia e per Septimus terrore.
Il romanzo della Woolf esprime a pieno i tratti peculiari del reduce che poi ritroveremo in altri autori. Anzitutto la ferita profonda, e per Septimus si tratta di un trauma psichico che in varia misura ogni ex combattente ha patito, come accade al protagonista del romanzo La paga del soldato, con cui William Faulkner esordisce nel 1926, un giovane aviatore che ha perso gran parte delle proprie facoltà mentali e non capisce nulla della nuova realtà che lo circonda, e più tardi a Seymour in Un giorno ideale per i pescibanana, primo dei Nove racconti pubblicati da J.D. Salinger nel ‘53. Seymour che dopo quanto ha sofferto nel secondo conflitto mondiale si muove come un automa, desta allarme con ogni suo gesto e appare insensibile a quanto gli accade attorno. Ma può trattarsi anche di lesioni fisiche, inabicato lità e menomazioni da cui sono affetti tanti reduci e anche il soldato di Faulkner, che torna sfregiato e mezzo accecato, o in una diversa chiave simbolica quello del racconto Il mantello di Dino Buzzati, come molti personaggi analoghi.
Altro elemento ricorrente è il divario fra il dramma vissuto al fronte e quella che viene percepita come estraneità e insensatezza della vita civile, con uno spiazzante rovesciamento di questi elementi che di solito sono attribuiti all’evento bellico. Spicca al riguardo Il ritorno del soldato Krebs, pubbli-nel ‘26 e più tardi compreso nella raccolta 49 racconti di Hemingway. Krebs si sente lontano da tutto, non riesce più a provare sentimenti nemmeno per i genitori che lo colmano di premure, mentre lo esortano a trovarsi un lavoro e uno scopo nella vita. Sente che il loro mondo non è più il suo e soprattutto che “non ne vale la pena”, frase che si ripete con cadenza martellante. Alienazione e scissione sono parole che non compaiono ma aleggiano costantemente, riguardo a tutti i personaggi citati. È così anche per l’ex combattente etiope, figura centrale della Regina di fiori e di perle (2011) di Gabriella Ghermandi. Al ritorno dalla guerra persa contro gli italiani, Yacob vive giorni vacui, sente che dentro di lui ci sono due io contrapposti, come se gli fosse cresciuto dentro “un ramo di una specie diversa dall’albero a cui apparteneva”. La frattura è insanabile, e ciò vale in larga misura anche per i reduci di tante altre guerre che nei più diversi contesti si sono succedute fino ai nostri giorni, di cui anche la filmografia, in particolare per quella del Vietnam, ha fornito rappresentazioni che hanno popolato l’immaginario collettivo. Fra gli impraticabili rapporti con le persone acquista grande peso quello con le ragazze, in specie quelle che avevano atteso il ritorno del soldato. Septimus ha una moglie che non lo capisce ma almeno ci prova, mentre il reduce di Faulkner ha una fidanzata bella e sensuale quanto frivola ed egoista. Seymour subisce con apparente indifferenza la futilità e la superficialità della giovane moglie, ma dopo un raro momento di intesa vissuto in spiaggia con una bambina, proprio dopo un ultimo sguardo alla moglie addormentata nella camera dell’albergo in cui sono in vacanza si spara un colpo in testa. Quanto a Krebs, le ragazze lo attirano, ma solo a distanza, perché in fondo non le desidera, rifiuta di mettersi in gioco e non vuole complicazioni.
In ultimo, l’esperienza vissuta ha determinato nel reduce un mutamento impossibile da ricomporre, e qui il testo più calzante è La paga del sabato, romanzo postumo di Beppe Fenoglio. Ne è protagonista Ettore, in perenne contrasto con la madre, che in un decisivo passaggio spiega proprio a lei perché ha lasciato il lavoro di manovale: “Mi facevano portare il calcestruzzo dalla betoniera a dove faceva di bisogno, così tutto il giorno, tutto il giorno avanti e indietro col carrello. Io da partigiano comandavo venti uomini, e quello non era un lavoro per me”. Difficile esprimere meglio e in così poche parole l’incompatibilità profonda per l’ex comandante partigiano fra tempo di pace e tempo di guerra, con l’impronta indelebile che il secondo gli ha impresso. Ettore rifiuta di farsi assumere nella “fabbrica della cioccolata” di Alba, e mentre assiste all’ingresso del personale pensa: “Ecco là gli uomini che si chiudevano fra quattro mura per le otto migliori ore del giorno, tutti i giorni. (...) Ecco là i tipi che mai niente vedevano e tutto dovevano farsi raccontare, che dovevano chiedere permesso anche per andare a casa a veder morire loro padre o partorire loro moglie”. E più tardi mentre raggiunge la propria casa si accorge di avvicinarvisi “come in guerra agli abitati dove non sapeva se c’erano o no nemici”.
Il confronto è insostenibile. Dopo l’esperienza bellica il reduce resta comunque un alieno, condannato a una irriducibile diversità. Forse anche per questo Fenoglio fa quasi sempre morire i protagonisti al termine delle proprie storie partigiane: non crede che per loro sia davvero possibile e vivibile il ritorno