Corriere della Sera, 16 luglio 2023
Emilio Gentile racconta il 25 luglio
Professor Emilio Gentile nel suo libro «25 luglio 1943», che uscirà con il nostro giornale, lei racconta i giorni in cui cadde il fascismo.
«Il 25 luglio è stato contemporaneamente, sia pure in modo distinto e non collegato, il prodotto di due cause. Da un lato la seduta del Gran Consiglio e la votazione del documento Grandi che fotografava l’implosione del regime, dovuta alla crisi che si era verificata nel gruppo dirigente fascista soprattutto dopo lo sbarco alleato in Sicilia. Ma dall’altra parte fu decisivo il colpo di Stato compiuto dai militari con il consenso del re, che culminò con l’arresto di Mussolini e la nomina di Pietro Badoglio a capo del governo».
Possibile che Mussolini non sapesse quello che si stava preparando al Quirinale e nel suo partito? Con il controllo che aveva sugli apparati di sicurezza…
«Per quanto riguardava le iniziative non di Dino Grandi per primo, ma del segretario del partito Carlo Scorza e di altri gerarchi, tra i quali Roberto Farinacci e Giuseppe Bottai, che il 16 luglio lo spinsero a convocare il Gran Consiglio, il duce era pienamente informato. Il 22 luglio Scorza gli fece leggere persino la prima stesura dell’ordine del giorno Grandi, che non fu quindi un fulmine a ciel sereno. Anche per quanto riguarda l’implosione del regime, Mussolini sapeva tutto. Ma è molto strano che nessuno lo avesse informato di quello che stavano preparando i capi militari che lui stesso aveva nominato, come il generale Vittorio Ambrosio, con il quale aveva contatti quotidiani. Ancora più singolare appare la sua totale, esplicita e dichiarata fiducia nel re. Mussolini era certo che il sovrano non avrebbe mai permesso che lui venisse defenestrato».
Il Gran Consiglio non si riuniva da prima della guerra… Che poteri di decisione aveva?
«Nessuna riunione del Gran Consiglio si concludeva con la votazione di un ordine del giorno perché questo lo poteva fissare solo, al momento della convocazione, il presidente del Gran Consiglio, cioè Mussolini. In secondo luogo non era prevista nessuna votazione perché l’organo supremo del regime fascista non aveva alcun potere deliberativo sulle questioni fondamentali. Era un organo di consultazione e poteva deliberare soltanto sulla lista dei parlamentari da eleggere e sulle questioni interne del partito. Terzo punto: come in passato Mussolini poteva in qualsiasi momento interrompere, sospendere, rinviare, non più convocare il Gran Consiglio, cosa che non fece, nonostante fosse stato per tempo informato dell’odg Grandi».
Che, altra circostanza inusuale, il 25 luglio fu messo ai voti prima di quello del segretario del partito Scorza.
«Questi elementi aprono interrogativi sull’atteggiamento di Mussolini durante lo svolgimento della seduta. Io curai nel 1981 le memorie di Giovanni Giuriati, che non era membro del Gran Consiglio ma partecipò, il 16 luglio, alla riunione voluta dal segretario del partito per imporre a Mussolini la convocazione del Gran Consiglio. Secondo Giuriati, Mussolini volle il Gran Consiglio e volle quel risultato. Per lui tutto quello che accadde era nella piena consapevolezza di Mussolini, compreso il fatto che poi il re lo avrebbe destituito».
Mussolini si consegna inerte al suo destino?
«Quando il re, nel colloquio a Villa Savoia il pomeriggio alle 17.30, gli comunica che lo avrebbe destituito, Mussolini accetta le dimissioni e augura buona fortuna al suo successore. Il giorno dopo, ormai arrestato, riceve una lettera di Badoglio che gli garantisce che tutto è stato fatto per la sua incolumità personale e che comunque il governo è pronto a trasferirlo nella località da lui preferita. Mussolini non solo chiede di essere trasferito alla Rocca delle Caminate, non solo ringrazia Badoglio, non solo gli augura buon lavoro per il grave compito che si è assunto, ma dichiara di essere pronto a collaborare, e conferma di essere, come era stato per vent’anni, un fedele servitore del re. Il re che lo aveva fatto arrestare. Ora, qualsiasi interpretazione che attribuisca a Mussolini la volontà di opporsi alla determinazione dei 19 firmatari dell’ordine del giorno Grandi, è smentita dallo stesso capo del fascismo».
Mussolini è regista consapevole o si consegna agli eventi?
«Probabilmente Mussolini, il 24, il 25 e il 26 luglio, si sente un uomo totalmente finito, col suo regime, travolto dalla guerra, che lui stesso aveva definito “la Corte di Cassazione per il giudizio sui popoli”. La catastrofe era iniziata nel 1940 con la disastrosa campagna di Grecia ed era culminata con l’occupazione alleata della Sicilia. Per un ventennio il duce aveva esercitato il potere assoluto in un regime totalitario con l’obiettivo di trasformare gli italiani in una nazione militare, anzi militarista. Tutto si concludeva con un fallimento totale. Il secondo punto è che lui si accorge, durante la seduta del Gran Consiglio, che i suoi più stretti collaboratori, quelli con i quali aveva costruito il regime fascista e che lo avevano sempre sostenuto accettando tutte le leggi del sistema totalitario, cioè Luigi Federzoni, Grandi, Bottai, gli voltano le spalle».
Mussolini la mattina dopo va a Palazzo Venezia come se non fosse accaduto nulla, incontra l’ambasciatore del Giappone…
«Mussolini in effetti continuava a sostenere che quella non fosse stata una riunione ufficiale del Gran Consiglio, ma una sorta di convivio segreto per dibattere, non per decidere. Persino Grandi, come risulta da una fonte attendibile, ad un certo punto, rivolto a Mussolini, disse: “Nessuno ha pensato a dare pubblicità all’eventuale approvazione dell’ordine del giorno”. Il capo del fascismo era convinto di aver avuto solo uno scambio animato interno al partito. Aveva accettato indirettamente molte critiche, tanto è vero che si apprestava a proporre al re un rimpasto del governo, una restituzione al Consiglio dei ministri di maggiore autonomia, la nomina di nuovi ministri ai tre dicasteri della guerra che lui deteneva dal 1933 e persino quello che chiedeva il Gran Consiglio, cioè che il re riassumesse il comando militare che aveva invece delegato a Mussolini nel 1940. Penso che Mussolini fosse realmente convinto che quella seduta non pregiudicasse affatto la continuazione e la legittimità del suo potere».
Lei smonta, nel libro, la ricostruzione che attribuisce a Mussolini frasi roboanti al termine della riunione…
«“Voi avete provocato la crisi del regime” è una frase che Mussolini si inventa nel resoconto che scrive nel luglio del 1944 per vergognosamente giustificare l’assassinio dei cinque membri del Gran Consiglio fucilati a Verona. Infatti, la frase non si trova nella maggior parte dei resoconti dei partecipanti. Gli unici che la riportano, però dopo che Mussolini l’ha inventata, sono Dino Grandi e Carlo Scorza. Inoltre Nicola De Cesare, il suo segretario, racconta che Mussolini, mentre si recava dal re, appariva chiaramente rassegnato: “Vado a rimettere tutto nelle mani del sovrano”, confermando quanto aveva detto telefonicamente a Clara Petacci dopo la seduta: “È finito tutto”».
Il dittatore avrebbe potuto rinviare
la riunione, sospenderla, mettere ai voti un altro testo. In realtà si sentiva finito: volle la seduta e volle quel risultato
Il Partito fascista si dissolve in poche ore, non c’è reazione.
«Nel momento in cui si viene a sapere che Mussolini aveva presentato le dimissioni e che Badoglio era il nuovo capo del governo, sia il segretario del partito Scorza, sia il capo della milizia Enzo Galbiati scrivono a Badoglio dicendo che loro hanno giurato fedeltà al duce e al re ma visto che non c’è più il duce rimangono fedeli al re. Un intero apparato che per 22 anni aveva funzionato a comando, venendo meno il duce, si mette al servizio di colui che apparentemente è il legittimo successore di Mussolini».
Ma è anche una delle tante pagine del trasformismo e dell’opportunismo italiano?
«Quello che è più sorprendente è che il colpo di Stato militare sia stato messo in atto da tutti uomini che avevano fatto un’ascesa splendente, onorabile e doviziosamente ricompensata durante il regime fascista. Questa classe dirigente ebbe poi la tragica responsabilità per i 45 giorni di ambiguo gioco tra Alleati e Germania, causa del disfacimento delle forze armate, della feroce occupazione tedesca, dello sfacelo dello Stato nazionale dopo l’8 settembre. Ciò spiega anche perché, dopo il 1945, ci sia stata una sorta di amnesia collettiva nei confronti di tutte le responsabilità che la classe dirigente politica, economica, sociale e militare aveva avuto nei confronti del regime fascista. Molti di quei gruppi dirigenti si ricicleranno nelle istituzioni repubblicane. È come se il 25 luglio fosse stato il battesimo di un’immunità, di una innocenza troppo facilmente recuperata».
Quali erano le vere intenzioni dei congiurati?
«Qui bisogna distinguere fra quello che noi possiamo verificare sulla base delle testimonianze più dirette e quello che è stato scritto dopo, soprattutto da Grandi che è stato un prolifico scrittore di apocrifi d’autore. Ho documentato nel mio libro che, fino all’aprile del 1942, Grandi, in lettere private e dichiarazioni pubbliche, è un enfatico adulatore di Mussolini, del regime totalitario. Quando presenta al re il nuovo Codice civile ne esalta l’aspetto della difesa della famiglia come pilastro dell’integrità della razza e della purezza ariana. E siamo nell’aprile del 1942. Grandi comincerà a fare il frondista attivo solo dopo il 20 luglio, cioè dopo che l’iniziativa di Scorza e di Bottai del 16 luglio ha imposto a Mussolini la convocazione del Gran Consiglio. Quindi il protagonismo di Grandi non esiste, almeno fino al 22 luglio».
Il re sapeva dell’ordine del giorno?
«Secondo Grandi era stato informato perché lui consegnò, prima della riunione, l’ordine del giorno, nella terza stesura rielaborata con Bottai, insieme a una lettera per il re, ma pregò Pietro Acquarone (ministro della Real Casa, ndr) di farla avere al sovrano solo dopo l’inizio della riunione. Ma in realtà erano già stati predisposti il colpo di Stato, l’arresto di Mussolini e addirittura, secondo qualche generale che complottava come Giuseppe Castellano e Vittorio Ambrosio, l’eliminazione fisica del duce. Il colpo di Stato sarebbe stato realizzato in ogni caso, qualunque fosse stato l’esito del Gran Consiglio».
Si può dire che i congiurati agivano ancora nel fascismo e invece il colpo di Stato era la fine del fascismo?
«Ecco, direi che possiamo eliminare la parola congiurati perché mai si è vista una congiura fatta alla luce del sole, in cui la vittima designata viene informata giorno per giorno, ora per ora. Documenti acquisiti nel 2016 dall’Archivio centrale dello Stato contengono una minuta dell’ultima seduta redatta da Federzoni. In essa non c’è minimamente traccia di quello che poi è stato detto da lui e da Grandi: che il loro proposito era quello di abbattere il regime. Tutti dichiarano infatti di essere per continuare la guerra e non per la pace a tutti i costi, che avversano qualsiasi ipotesi di destituzione di Mussolini e che il loro proposito non è abolire il fascismo ma riformarlo, eliminando tutte le incrostazioni totalitarie accumulate nell’ultimo decennio. Che questo sia vero, è confermato da uno dei principali sostenitori dell’ordine del giorno Grandi, Giuseppe Bottai. Quando nel 1944, prima di arruolarsi nella Legione straniera, legge i primi resoconti di Mussolini e di Grandi sul Gran Consiglio dice: “Sono delle falsificazioni che fanno schifo”. Era tutto falso, dice, perché noi volevamo un Mussolini con il fascismo liberato dalla dittatura, ma non un fascismo contro Mussolini e meno che mai una abolizione del fascismo».
Nel suo libro, una ricostruzione accurata e dettagliata di quei giorni incredibili, Mussolini appare malato, incerto, inconsapevole, isolato. Una figura da tragedia.
«Lui si sente un uomo finito. In primo luogo perché vede il Paese catastroficamente devastato dalle sue assurde ambizioni belliche, ma anche perché, forse, era da tempo convinto che, quando un duce perde il carisma e resta isolato può decidere la propria eutanasia politica. A tal proposito, c’è una frase che mi ha fatto molta impressione: risale al colloquio con Emil Ludwig (giornalista tedesco, ndr), nel 1932, in cui l’interlocutore del duce citò il Giulio Cesare di Shakespeare che Mussolini teneva sulla sua scrivania come un vademecum del grande uomo. Allora, quasi parlando a sé stesso, il duce disse: “Perché non volle esaminare la lista dei congiurati, che pure gli era stata consegnata? O si lasciò forse uccidere perché sentì di essere un uomo finito?”».
Il 25 luglio, il duce sembra rivivere il destino di Cesare, come lo aveva immaginato nel 1932. Tante voci, anche la moglie, lo avevano avvertito che era in atto un complotto contro di lui. A chi glielo dice, compreso il segretario Scorza il giorno prima, lui risponde: «No io non credo ai complotti, non credo a questi gialli, o giallissimi. Il re è leale con me e io sono fedele al re».
«Ma lo sovrastava il problema più drammatico: Mussolini non aveva avuto il coraggio di dire a Hitler negli incontri più recenti, quello a Salisburgo nell’aprile e quello a Feltre proprio il 19 luglio, che l’Italia non era più in condizione di sostenere la guerra. La soluzione, nell’ipotesi di Mussolini, era una cessazione del conflitto con l’Urss per concentrare tutte le forze nel Mediterraneo, oppure un’uscita dell’Italia dalla guerra col consenso della Germania. Due cose che Hitler non gli avrebbe mai concesso».
Io penso che quel giorno, nella sala del Pappagallo di Palazzo Venezia, durante quella riunione, Mussolini capì che non sapeva più come governare, come guidare, come scegliere, come decidere.
«Si rese conto che l’unica soluzione, per lui, era scendere dal treno della storia».