il Giornale, 16 luglio 2023
Biografia di Arthur Rimbaud
«C he cosa rilancia in eterno la letteratura? Cosa induce gli uomini a scrivere? Altri uomini, la madre, le stelle, o le antiche cose inaudite, Dio, la lingua?». Con questa domanda Pierre Michon sigilla il suo libro, Rimbaud (De Piante, pagg. 152, euro 22, a cura di Leo Ninor, introduzione di Davide Brullo), domanda che vale per il genio di Una stagione all’inferno, per Michon stesso, e per chiunque scriva credendo ancora nel valore della letteratura come via privilegiata per la conoscenza dell’anima umana e dell’intera realtà. Il libro di Michon, coraggiosamente pubblicato da una casa editrice che punta su raffinatezza e alta qualità del proprio catalogo, è uno di quei libri che possono essere concepiti solo in Francia, dove esiste una tradizione, che comprende Blanchot, Bataille, Sartre, per la quale interrogarsi su un libro o su un autore vuol dire porre domande all’essenza della sua vita e al mistero del linguaggio. Rimbaud di Michon non è un saggio critico, non è una biografia, non è un romanzo-saggio. È una prova di scrittura sontuosa, invasiva, illuminante, fatta di descrizioni, intuizioni, folgorazioni, pause aforismatiche, che ha per oggetto Arthur Rimbaud, la parabola enigmatica di un autore che scrive le sue cose più belle e destinate a rivoluzionare la poesia a diciassette anni, e poi fugge dall’Europa e in Africa rinuncia per sempre all’invenzione letteraria, dedicandosi a commerci, esplorazioni, vagabondaggi sino alla fine, al ritorno tragico a Marsiglia e alla morte. Per Michon, tutti i fattori che spingono a scrivere agiscono in Rimbaud adolescente, ma ce ne è uno più forte di tutti, ed è la sua condizione di figlio, figlio della borghesia agraria e militare, figlio di Vitalie e del Capitano, contro cui si ribella subito. Fa a pezzi i fiori e i sorrisi adolescenti, in sé, di sé ama solo il pozzo dove tutto sprofonda. È l’ambizione ribelle che crea i grandi poeti, secondo Michon, ed è quasi una regola. Rimbaud leggeva le sue prime poesie in latino o in alessandrini a Vitalie e al Capitano, ma li detestava, loro e i suoi versi. Studiava i grandi maestri del verso francese, il verso dai dodici piedi così sonoro e perfetto, Malherbe, Racine, Hugo, Baudelaire, li venerava e li disprezzava, come è utile e fatale con i maestri. Michon ripercorre le tappe dell’apprendistato di Rimbaud dedicando attenzione ai personaggi con cui il giovane provinciale di Charleville fa i suoi primi incontri. Il primo è Georges Izambard, suo giovane professore, un uomo mite, timido, riservato, fervente repubblicano, che crede che la poesia sia al servizio del bene. Rimbaud si libera con il suo aiuto della madre, ma se la ritrova relegata nell’inconscio. E poi si libera anche di lui, l’onesto professore, e scopre che la poesia è male. Il secondo personaggio, su cui Michon effettua un largo excursus, è Theodore de Banville, brav’uomo e poeta quasi perfetto, timoroso, gentile, poseur ma sincero, fremente, un po’ antiquato. Il tipo umano più lontano da Rimbaud. Il borghese che abita al numero 10 di Rue de Buci e passeggia nei giardini del Luxembourg sbirciando da lì la cupola del Pantheon, promessa di immortalità. Baudelaire lo stimava superiore «rispetto alla plebaglia moderna», nonostante andasse a letto con Marie Daubrun, donna che lui amava. L’incontro con Rimbaud invece non funziona, Banville decanta le corbellerie dell’estetismo letterario, la verità presente nella sintassi più che nei desideri, nella rima più che nei cuori. Poi viene Paul Demeny, poeta destinato a rimanere nella storia della letteratura solo perché fu il destinatario della lettera del Veggente. I temi della poesia come profezia e veggenza, nota Michon, circolano in Hugo, Gautier, Baudelaire, Nerval, Mallarmé, ma nelle mani di Rimbaud diventano più convincenti, più giovanili, più battaglieri. Come affermati per la prima volta. Che in uno dei suoi primi soggiorni a Parigi Rimbaud abbia parteggiato per la Comune e visto le sue barricate è certo. Non è certo invece se abbia sparato un colpo, o abbia fatto il tamburino o se ne sia stato ai piedi di qualche barricata in compagnia di vagabondi, reietti, feriti a bere birra e a urlare slogan rivoluzionari. E infine l’incontro capitale, controverso, drammatico, estremo, quello con Paul Verlaine. A Verlaine dobbiamo le più vivide descrizione del giovane Rimbaud: «alto, solido, quasi atletico, dal viso perfettamente ovale d’angelo in esilio, con capelli di un castano chiaro, in disordine, e occhi di un inquietante azzurro pallido». È l’incontro di due veggenti. Diventa in pochi giorni l’incontro di due amanti, che trepidano «nell’antica danza ebbra della copula tra due corpi nudi», una storia di eros trasgressivo, di fughe, a Bruxelles, a Londra, di gusto della perdizione, tra fiumi di assenzio, whisky, birra, sino al colpo di pistola che segna il punto di non ritorno. Rimbaud aveva già scritto Il battello ebbro, dopo, tornato dal vagabondaggio nelle sue Ardenne, scrive, e appare a Michon un miracolo, «fogli ermetici come Giovanni, aspri come Matteo, esotici come Marco, civilizzati come Luca, e come Paolo di Tarso aggressivamente moderni, ossia schierati contro il Libro», i fogli di Una stagione all’inferno. L’opera di Rimbaud, afferma Michon, è «un’opera compatta e chiusa come un pugno, o un significato recondito». Un’opera che consta di folgorazioni vitali, quelle che fecero scrivere a Henry Miller in Max e i fagociti bianchi, un libro di critica che «fa mondo» oggi colpevolmente dimenticato, che le Illuminazioni di Rimbaud «valgono più di uno scaffale di Proust, Joyce, Pound, Eliot ecc.». Un’affermazione ribalda, un po’ teppistica, che spazza via di un colpo, in nome di Rimbaud, il canone novecentesco, condannando il Novecento come «universo della morte». La passione di Miller per Rimbaud è quella di un vitalista ribelle che trova nell’adolescente di Charleville la quintessenza dell’amore per la vita e la poesia, un amore che proprio per il proprio eccesso non teme di trasformarsi in disprezzo e odio. Dinamica del sentire che Rimbaud ha fatto propria. Amava e disprezzava, da sua madre in giù. Infarinava le persone, nel senso che ha in francese rouler dans la farine, e cioè imbrogliare, o più propriamente fregare, fottere. Aveva infarinato Izambard, Banville, Demeny. Gridato e ripetuto merde! impetuoso e insolente come solo un francese sa fare, mentre ascoltava altri giovani poeti leggere i loro versi. Solo con Verlaine finisce in un altro modo. Il colpo di pistola con cui il poeta di dieci anni più anziano ferisce il più giovane è più simbolico che altro: la ferita fisica spalanca ancora di più quella morale. Rende chiaro al giovane ribelle, allo straordinario poeta fiorito in un istante, che tutto è vano, l’amore, il sesso, la fama, la stessa letteratura. Finisce per odiare se stesso e la letteratura, Rimbaud. E così, dopo tanti vagabondaggi, lascia definitivamente l’Europa nel 1880, per non tornarvi che a morire. E lascia la poesia. Con una pervicacia che denuncia un rabbioso conto in sospeso. Scrive ormai resoconti, lettere, ma neppure più un verso. Quel suo silenzio di anni in terra d’Islam sembra una scelta mistica al grande poeta arabo Adonis, che ne parla in La preghiera e la spada, dove avanza l’ipotesi di un rapporto tra il Rimbaud africano e il Sufismo. Per Michon, invece, la scelta di smettere di scrivere può essere solo stata dettata da due cose: la cupidigia d’oro, di ricchezza, forse. Ma certamente la volontà di non «diventare figlio delle sue opere». E allo stesso tempo, dal rifiuto di ogni forma di paternità. Ribellione assoluta, consumata tra porti e deserti e carovane, lontano dallo spirito cartesiano dell’Europa, e in un clima propizio ai miraggi. Pierre Michon non racconta, evoca, immagina, convoca figure intorno al protagonista del suo libro: ci dona un Rimbaud scritto con un occhio alla veggenza rimbaldiana, un grande omaggio allo spirito della letteratura, al suo eterno rilancio.