Corriere della Sera, 16 luglio 2023
La letteratura e le tragedie personali
Può succedere che si torni a parlare di letteratura. Per esempio, nei dintorni dello Strega, che il critico Gianluigi Simonetti definisce, nella rivista online Snaporaz, «camera con vista sociologica sulla nostra idea del romanzo». Ed è sempre Simonetti (anche nel suo ultimo saggio) che fa notare come sia emergente il racconto di esperienze vere e tragiche, per lo più autobiografiche, narrate in forme canoniche. Quest’anno, tre romanzi della cinquina erano racconti delle proprie «sventure» e più in generale quattro erano vicende di vittime del mondo, della famiglia o del destino. Ha vinto il libro più commovente, Come d’aria di Ada D’Adamo (deceduta nel frattempo), testimonianza asciutta, essenziale, di una malattia mortale (della madre-scrittrice) e di una disabilità (della figlia). Si potrebbe ricordare che il racconto vero delle proprie tragedie non è solo una preferenza dello Strega (pensate all’ultimo libro di Michela Murgia) e non è solo una tendenza italiana (pensate all’ultimo Nobel, Annie Ernaux). Detto ciò, e constatato che forse in letteratura «servono emozioni forti perché evidentemente nella società difettano», come scrive Simonetti, si potrebbe sorridere dell’ombelicalità italiana recente, se non fosse che l’ombelicalità in passato ha prodotto capolavori indimenticabili. A proposito di disabilità del fisico e/o del pensiero, due sono gli esempi autobiografici sommi: Fratelli di Carmelo Samonà (1978) e Nati due volte di Giuseppe Pontiggia (2000). Infiniti sono i resoconti letterari dei drammi personali, non solo in Italia. Philip Roth ha raccontato la propria decadenza e la malattia del padre. E il più bel libro di James Ellroy ricostruisce l’assassinio di sua madre. Per non dire della perdita del marito narrata da Joan Didion. Ombelicali piagnucolosi? Dolore proprio o altrui, ciò che conta in letteratura è sempre il «come» dirlo, anche se ai più interessano i nudi fatti.