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 2023  luglio 16 Domenica calendario

Intervista a Leonardo Maria Del Vecchio

Leonardo Maria Del Vecchio sposta la tazzina del caffè. Dal tavolo, la mette dentro un vassoio: «Il vassoio è la fabbrica di Agordo, la tazzina è la casa di mio padre: la fabbrica le è cresciuta attorno, papà ci ha passato la vita, poteva andarci in un passo. Non gli è mai piaciuto perdere tempo». Leonardo Maria è il quarto dei sei figli del fondatore della Luxottica degli occhiali, l’unico avuto da Nicoletta Zampillo che è stata seconda e terza moglie e, che da un anno, da quando Leonardo Del Vecchio è mancato, ottantasettenne, ne è la vedova. Soprattutto, Leonardo Maria è l’unico figlio che lavora in EssilorLuxottica, colosso da 80 miliardi di capitalizzazione, 25 miliardi di fatturato, 200mila dipendenti. A soli 28 anni, è chief strategy officer. Anche a lui non piace perdere tempo. A un certo punto, dirà «sono dovuto crescere in fretta: sapevo che dovevo rendere mio padre fiero di me e che non avevo molti anni per farlo». Ha appena spostato la tazzina. Sta raccontando come e perché ha sempre desiderato entrare in azienda. Dice: «Ho amato la fabbrica fin da bambino perché sentivi nell’aria la passione degli operai per il lavoro e il loro amore per mio padre. Quando entrava lui, era come se entrasse il papa. La prima volta che ho assistito a quella scena, avevo otto o nove anni e il mio sogno è stato: magari un giorno, guarderanno così anche me». Leonardo Maria ha scarpe con la suola di gomma comode per camminare e i capelli lunghi di chi va dal barbiere quando proprio non può farne a meno. Siamo arrivati in questa sterminata sala riunioni attraversando corridoi, hall che sembrano d’aeroporto, costeggiando pareti di vetro che guardano Milano dall’alto. Fino a un anno fa, questo era il quartier generale dell’uomo che, cresciuto in orfanotrofio, fondò un impero. Oggi, qui, c’è il figlio che più gli è stato vicino negli ultimi anni che rilascia la sua prima intervista. C’è una sola domanda a cui non risponderà e non è quella su cui s’interroga tutto il mondo della finanza. Ovvero, se la holding Delfin che riunisce gli otto eredi, fra cui quattro che hanno accettato l’eredità con beneficio d’inventario, tenterà ancora la scalata a Mediobanca e Generali sognata dal padre. Invece, quando gli chiedo l’ultimo ricordo che ha di lui in ospedale, tace. Leonardo Maria ha mani dalle dita affusolate come quelle di suo papà, che principiò tutto questo assemblando astine e frontali di occhiali. E, ora, le sue mani tremano leggermente. Silenzio. E ancora silenzio. Infine, domando: e il ricordo più allegro di suo padre? «Quando giocavamo a burraco. Quando vinceva, rideva e mi prendeva in giro. Quando perdeva, si incavolava come una iena». E, ora, la sua risata fa vibrare ogni parola. Sorride. «È solo il primo ricordo che mi è venuto in mente».
Che spartiacque è stato, per lei, il 27 giugno 2022, giorno della morte di suo padre?
«Tutti noi della famiglia e, intendo la famiglia allargata all’azienda come la intendeva mio papà, abbiamo perso un padre, c’è chi ha perso un marito, chi un amico, chi un mentore. Io ho avuto la fortuna di stargli vicino sul lavoro anche mentre facevo l’università. Stavo qui tutto il giorno e ho imparato tantissimo da lui e da Francesco Milleri, che oggi è il presidente e amministratore delegato di EssilorLuxottica e il presidente di Delfin. Poi, ovviamente, le ultime settimane prima dell’esame, studiavo. Se mi chiede se c’è un Leonardo Maria del prima e del dopo... La perdita di mio padre era il momento a cui avevo cercato di preparami per tutta la vita, ma quando succede davvero, non è come te lo aspetti. La cosa che è cambiata è che lui non c’è più».
E come sono cambiate le sue responsabilità, le aspettative nei suoi confronti?
«Sono aumentate. Prima, il centro dei miei sforzi era lui, era dimostrargli che poteva fidarsi di me. Adesso, sono altre sette persone, non meno esigenti di come era lui».
Sette non è un numero a caso.
«Sono i familiari che siedono in Delfin, i tre miei fratelli che papà ha avuto dal primo matrimonio, i due avuti da un’altra compagna, quindi mia madre e Rocco Basilico, figlio delle prime nozze di mamma e chief wearable officer dell’azienda e responsabile del marchio Oliver Peoples a Los Angeles».
E lei come dimostra che possono fidarsi?
«Con i risultati. Cercando di fare ogni giorno meglio del precedente».
Che altro ricorda della sua prima visita in fabbrica?
«Ero piccolo per capire quanto lavoro ci fosse dietro un occhiale. Mio padre mi portò nei vari reparti. Mi fece vedere che, per farne uno di qualità, in Italia, servono 160 operazioni, di cui molte manuali. Cercava di far capire a un bimbo come manodopera e capitale umano siano essenziali e che le persone sono al centro del successo di ogni compagnia».
Com’è la scena madre in cui gli annuncia che vuole lavorare in azienda?
«Non c’è. Mio padre aveva detto in un’intervista che i figli non sarebbero più entrati e sarebbero stati solo azionisti. Non avrei mai avuto il coraggio di confessargli il mio desiderio. Sono andato a studiare in Bocconi e immaginavo un percorso in multinazionali all’estero, per cui, un giorno, se chiamato, potevo essere pronto a tornare a casa. Invece, quando mio padre ha scoperto che cercavo lavoro altrove, si è quasi offeso. Mi ha detto: veramente vuoi andare in un’altra azienda a fare fotocopie piuttosto che venire da me a imparare il mestiere?».
Come si è sentito in quel momento?
«Molto orgoglioso. Sono entrato col ruolo di un qualsiasi neolaureato. Naturalmente, per un ventiduenne, lavorare con lui e Francesco è stato un acceleratore di crescita. Il mio primo capo, Massimiliano Mutinelli, che si occupava sia di wholesale sia della Salmoiraghi & Viganò appena acquisita, è stato il primo a vedere che ero più vicino alla parte retail: il negozio è come una minifabbrica, anche lì le persone sono al centro e fanno il successo».
È mai stato una giornata in un negozio?
«Quando ho iniziato, in piazza San Babila a Milano, stavo da mattina a sera in piedi a vendere occhiali. Facevo il commesso. In negozio, capisci cosa il cliente vuole e come darglielo».
Era bravo a vendere?
«Non faccio autovalutazioni, mi piaceva, anche se arrivavo a fine giornata cotto. E riuscire a vendere due occhiali al posto di uno era una soddisfazione. Ho iniziato con un negozio, poi con tre. Poi, mio padre mi ha chiesto di prendere Salmoiraghi & Viganò. Avevo forse 23 anni e ho detto no. Non mi sentivo pronto. Me l’ha richiesto dopo sei mesi, ho ridetto no. Alla terza, non ho potuto sottrarmi».
La prima prova ardua?
«Aprire a Roma il primo flagship store italiano di Ray-Ban, che oggi è il primo negozio al mondo per vendite. Sono fiero della location, in via Del Corso: entrano più di mille persone al giorno. La responsabilità era enorme: l’affitto era molto importante. Quando ho portato il progetto a mio padre e a Francesco, mi hanno guardato come a dire: non sarebbe il caso di partire da meno? Ma per me, se capita un’occasione e non la cogli, non è detto che ricapiti. Mio padre mi ha portato fuori dalla stanza, mi fa: guarda che, se fai bene, pochi ti diranno bravo, ma se fai male, ti bruci...».
E non le ha messo paura?
«Molta. Infatti, prima di firmare il contratto di affitto, sono stato giornate intere a spiare i flussi di passanti: bisognava capire che tipo di acquirenti fossero e quello lo vedi dai sacchetti dello shopping».
Che rapporto ha con Milleri?
«Francesco è il mio punto di riferimento. Da quando papà non c’è, mi è stato molto vicino sul lavoro, dandomi fiducia, e anche fuori dal lavoro: è stato un ultimo regalo di mio padre».
E com’è il rapporto coi suoi fratelli?
«Siamo tre famiglie diverse, tre generazioni diverse. I due piccoli devono ancora finire uno la scuola, l’altro l’università, mentre Claudio, il maggiore, ha più di 60 anni. Conciliare idee e visioni non è semplice, però il dialogo deve essere costruttivo e io ci metto tutto l’impegno. Ai funerali di papà, davanti a decine di migliaia di dipendenti ad Agordo o collegati nel mondo, ho promesso di curare il suo lascito dando fino all’ultima goccia di sangue. Mai da solo, ma col management di EssilorLuxottica e di Delfin».
Suo padre ha stabilito per l’assemblea di Delfin una maggioranza dell’88 per cento nelle decisioni straordinarie. Questo come si concilia con quattro fratelli che hanno accettato l’eredità con beneficio d’inventario?
«Io, e non solo io, ho accettato senza riserva. Ovviamente, il meccanismo di beneficio d’inventario ha allungato i tempi del processo di successione, che si sarebbe altrimenti chiuso in poco tempo, dato che noi figli e mia madre avevamo già la nuda proprietà delle quote di Delfin. Rimaneva solo da seguire la volontà di nostro padre: premiare i manager che hanno reso l’azienda quello che è, in particolare Francesco. Con lui, l’azienda ha più che raddoppiato il fatturato e triplicato l’utile. I circa 300 milioni di euro in azioni che gli sono stati destinati possono sembrare tanti, ma non lo sono, se paragonati a un’eredità di quattro miliardi per ciascuno. Per cui, se penso che non siamo ancora riusciti a chiudere la successione, sinceramente, me ne vergogno».
All’inizio, ci si chiedeva, piuttosto, se la famiglia avrebbe pagato anche le tasse di successione di Milleri, invece, è in discussione il suo stesso lascito. Pensa che vi ricompatterete?
«Lo spero e lotterò affinché questo avvenga secondo le volontà di mio padre. Di Francesco posso dire che non ha parlato di tasse o non tasse e che ha dato priorità non alla sua posizione, ma alla chiusura della successione, cercando non dico di metterci d’accordo, ma di non intralciare e, anzi, di agevolare Delfin».
Se il disaccordo persiste, si butta a mare famiglia o azienda?
(Di nuovo, quella risata. La sua) «L’azienda non si butterà mai a mare».
Suo padre combatteva una battaglia per salire in Mediobanca e Generali, da molti definita «patriottica». Lei, idealmente, si sente di raccogliere questa eredità?
«Innanzitutto, non userei la parola “combattere”. Penso invece che sia l’Italia sia Generali che Mediobanca, dovrebbero essere contente che ci sia stato un investimento da parte di mio padre: l’investimento di un italiano, perché le quote di Mediobanca le abbiamo prese da Vincent Bolloré, che è francese. Papà è stato accusato di aver portato le aziende in Francia, ma quando ha investito in quelle italiane è stato ugualmente accusato. Per rispondere alla sua domanda, su queste operazioni, mio padre ha lasciato compiti precisi a Francesco e al management di Delfin e io, come azionista, le condivido e, naturalmente, supporto al cento per cento le decisioni che sono espressione della visione di mio padre».
Suo padre ha espresso queste volontà per iscritto o come?
«Chi ha lavorato con lui sa quello che voleva fare, perché voleva farlo e qual era la sua visione: non ha mai fatto investimenti per ribaltare un’azienda o per mandare a casa qualcuno, li ha fatti per far andare meglio le aziende e valorizzare le persone».
Il giovane Del Vecchio si alleerà nelle scalate, come fece suo padre, col vecchio Francesco Gaetano Caltagirone?
«Franco era amico di mio padre, è una persona di grande lealtà e spessore ed è anche mio amico».
Suo padre ricordava mai l’orfanotrofio, la gavetta? E come l’ha educata a capire che esiste anche la povertà?
«Quando si lasciava andare sul suo passato, dava lezioni bellissime. Grazie ai suoi racconti, penso sempre a quanto sudore c’è dietro a ogni euro che spendo. Da lui ho imparato anche la generosità e tuttora porto avanti i suoi progetti di charity. Mentre parliamo, la Fondazione OneSight EssilorLuxottica Italia che presiedo sta distribuendo occhiali nel carcere romano di Regina Coeli. Nel mondo, una persona su tre ha difetti visivi non corretti: il nostro obiettivo è risolvere questo problema entro il 2050, offrendo occhiali, visite oculistiche, interventi chirurgici e formando ottici dove non c’è accesso all’istruzione. Abbiamo distribuito già 63 milioni di occhiali nel mondo. In Italia, facciamo visite a tappeto in interi quartieri».
Lei ha anche una sua società, la Triple Sea Food. Perché ha investito nella ristorazione?
«Il 90 per cento del mio tempo è dedicato a EssilorLuxottica, ma ho rilevato due ristoranti milanesi in difficoltà causa Covid: mi piaceva fare qualcosa di mio in piccolo. Mio padre diceva: anche se fai qualcosa di piccolo, fallo al meglio. E ora sono contento dei risultati del primo anno del Vesta e di Casa Fiori Chiari. Poi, col mio family office, ho investito su Boem, il drink di Fedez e Lazza, poco alcolico e poco calorico e tutto made in Italy. Io lo chiamo Boèm, Fedez Bòem, Lazza Boèm, ma la cosa importante è che è buono. Altri investimenti sono nella SpaceX, nella Sound Ventures e in società che si occupano di ecosostenibilità».
A 28 anni, è già stato sposato, è divorziato. Davvero ora sposa l’attrice Jessica Michel?
«Sono ufficialmente fidanzato e molto felice di esserlo. Ma non mi sono già sposato, come alcuni hanno scritto, si parlerà di matrimonio non prima di un anno. Ho conosciuto Jessica a Cannes nel 2017, prima di laurearmi. Festeggiavamo i cento anni degli occhiali Persol, l’evento era uno dei primi compiti che mi era stato affidato. Ci siamo scambiati poche parole, ma da quella prima volta è nata... Come descriverla? Un’elettricità che non ci ha davvero mai divisi e che ora ci ha portati a dire sì. Lei in particolare» (rieccola, la risata).
Però, non si era fatto avanti?
«Io avevo 22 anni, lei 26 e aveva già un figlio, l’ho percepita subito come una donna, mi sono piaciuti la sua maturità, il suo senso del dovere, ma quando sei così giovane, la differenza d’età conta più di quanto conti oggi a 28 e 32 anni. L’ho rivista due anni dopo in Sardegna a un evento Unicef, con cui collaboro. Abbiamo passato del tempo con amici, ci siamo conosciuti meglio, ma lei era fidanzata. Negli anni, ci è capitato di rivederci per caso. Verso febbraio, marzo di quest’anno, ci siamo sentiti ed eravamo entrambi single. Il resto, è storia».
È l’enorme diamante giallo che Jessica porta all’anulare sinistro.
«Le ho chiesto la mano a Conca Del sogno, un posto incantevole a Massa Lubrense. Non era programmato per quella sera e, quindi, non avevo l’anello. Appena lei mi ha detto sì, mi sono precipitato a Capri a comprarlo».
Non sono pochi quattro mesi per decidere di sposarsi?
«Jessica mi è sempre piaciuta, mi è sempre piaciuto che fosse una donna vera, impegnata sul lavoro. Conduce lo show più longevo d’America, Days of our lives, 60 anni di storia, ha i miei stessi orari: è lì alle 8,30, torna a casa alle 17 e riesce a essere presente come madre suo figlio, che ha 15 anni. È la donna che ho sempre pensato perfetta per me».
Perché il suo matrimonio con Anna Castellina Baldissera è finito così presto?
«Io ero già molto focalizzato sull’azienda, lei era molto giovane, aveva solo 21 anni, ma conservo bei ricordi. Comunque, non che faccia differenza, il matrimonio è durato 14 mesi, non sei, come tanti hanno scritto».
Già che ci siamo, smentiamo anche che il divorzio le è costato 40 milioni?
«Ancora questa storia? Ne abbiamo concordati tre in beneficenza».
Lei ha delle passioni oltre al lavoro?
«Una per le auto da corsa, forse perché guardavo la Formula Uno con mio padre: era un’occasione per stare con lui. Oggi, ho un piccolo team non professionale. Abbiamo appena fatto due podi in Portogallo nella categoria Pro».
Da adolescente, sapendo che avrebbe ereditato miliardi, provava euforia, senso di onnipotenza, di colpa, paura o che altro?
«I soldi non mi spaventavano o davano euforia, ma mi facevano pensare che averli comportava la responsabilità di 200mila famiglie. Ad Agordo, molti operai chiamavano per nome mio padre e lui chiamava per nome loro. Oggi, il mio sogno più grande è che, un giorno, i miei figli mi guardino con gli stessi occhi con cui io guardavo lui fra i suoi operai».