Domenicale, 16 luglio 2023
L’importanza degli alberi
«Gli alberi! Ci sono gli alberi!». Il grido che si alza dalla carrozza del Gattopardo, alla vista di Donnafugata, attraversate le torride colline siciliane, si ripete abitualmente. È di paura, quando gli incendi li bruciano, l’edificazione consuma il suolo che li ospita e improvvisati potatori li decapitano. Di speranza, quando si affida il futuro dell’umanità alla fotosintesi che produce ossigeno e assorbe, conservandola nel legno, l’anidride carbonica che, accumulandosi in atmosfera, è causa del cambiamento climatico. Ci si è domandati se gli alberi, che si è detto essere “le colonne del cielo”, siano in grado di reggerlo.
I numeri contano e allora bisognerebbe essere soddisfatti se i dati dell’ultimo inventario dicono che in Italia, negli ultimi dieci anni, la superficie forestale è aumentata di 587.000 ettari (a spese, bene ricordarlo, dell’agricoltura tradizionale). Dicono anche che i 15 miliardi di alberi nazionali assorbono non più del 5-10% delle emissioni di CO2 e, considerando che un ettaro assimila all’incirca l’equivalente delle emissioni di un’automobile, ci si chiede quali e quante superfici si dovranno occupare. A livello planetario i numeri sono ancor più demoralizzanti visto che per raggiungere gli obiettivi Onu (1000 miliardi al 2030) salutati con l’entusiasmo cieco che accompagna le grandi sfide, si è calcolato che bisognerebbe piantarne 305 milioni al giorno. Nel frattempo, ogni sei secondi, sparisce una fetta di foresta tropicale per una superficie di un campo di calcio.
Si torna a temere, come l’uomo che piantava gli alberi del racconto di Jean Giono, che il «paese sarebbe morto» per loro mancanza.
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All’inizio, 400 milioni di anni fa, quando si imparò a far fuoco, si colsero subito i vantaggi del legno per riscaldare dal freddo, cuocere i cibi e conservarli più a lungo, illuminare la notte, difendersi dalle bestie feroci. Plinio scriveva che gli «alberi sono il dono più grande, con essi solchiamo i mari e avviciniamo le terre, costruiamo le case» e che i loro frutti rendevano «la vita più dolce». Un conto, però, era usare il legno morto, tagliare alcuni rami o singoli alberi, altro era disboscare senza misura per dare spazio all’allevamento e all’agricoltura. Il selvaggio Enkidu, nell’epopea che prese nome dall’amico Gilgamesh, «sgombrava le radici fino alle sponde dell’Eufrate e zattere di cedri come serpenti giganteschi, scendevano il fiume dalla montagna». «Perché avete fatto questo?... D’ora innanzi vi sia il fuoco sui vostri volti», era furioso Enlil il dio della terra, del vento e dell’aria. Ai disboscamenti, seguì la desertificazione, complice un cambiamento climatico, e quando grandi estensioni di alberi vennero meno i danni furono immensi. Parti del Peloponneso, scriveva Platone in Crizia, «sono come ossa di un corpo che è stato colpito da una malattia, perché la terra intorno è scivolata».
Nel tempo, consapevoli agricoltori, giardinieri e forestali, politici avveduti cominciarono a piantare (non “piantumare”, per carità di arboricoltore!). Agricoltori, come Dione, oscuro colono della Tunisia romana del V d.C., ne piantò 4000 (si presume olivi e fichi) e soddisfatto visse ottanta anni in pace, come riporta un mosaico funerario: «in pace vixit annos octaginta et instituit arbores quattuor milia» o appunto il pastore del racconto di Giono che coprì di querce, faggi e betulle i monti della Provenza. Alle ragioni della produzione e della difesa del suolo si univano le raccomandazioni degli uomini saggi. Rousseau invita a piantare un albero anche «se non riesci a immaginare chi un giorno godrà della sua ombra» e quando Catone chiese agli agricoltori perché piantassero alberi risposero «per gli dèi immortali, i quali vollero che non solo ricevessimo tali doni dagli antenati ma li trasmettessimo anche ai posteri».
Il secolo scorso è tempo di pubbliche imprese e vaste superfici. Negli anni del New Deal Roosevelt, a seguito della siccità che desertificò le pianure del Nordamerica sfiancate dalla monocoltura, promosse un progetto che arrivò, tra il 1938 e il 1942, a realizzare barriere frangivento di 220 milioni di alberi per fermare l’erosione e ridurre le perdite d’acqua con un successo innegabile. Uguale intento, ma con diversi esiti, fu quello di Stalin, quando nel 1948, con il “Grande piano per la trasformazione della natura” previde che 6 milioni di ettari delle steppe meridionali, anche esse ridotte in polvere, fossero chiusi da cinture di betulle, querce, frassini e pioppi. In Cina Mao, nel 1956, lanciò il “Grande balzo in avanti”. Il piano “Rendere verde la Madrepatria” avrebbe dovuto interessare 21 milioni di ettari e, in forme diverse, continua. Organizzazioni internazionali si occuperanno dell’Africa con la “Grande muraglia verde” del Sahara avviata negli anni 70.
Adesso, in tempi di conclamati cambiamenti climatici, i numeri crescono e le iniziative assumono confini planetari. Sono numeri mirabolanti sorretti da un successo mediatico che spesso confonde propaganda, greenwashing e selvicoltura. L’Onu, nel G20 del 2021, ha promesso di piantare i 1000 miliardi auspicati utilizzando 900 milioni di ettari. Ci si domanda dove trovare queste enormi superfici, considerando l’inevitabile concorrenza con altri usi del suolo (prima di tutto alimentari) e osservando, a conti fatti, che per questa via si sarebbe raggiunta una efficienza, nella capacità di creare “serbatoi di carbonio”, con potenziale di assorbimento appena pari al 2-8 % delle emissioni che ogni anno provengono dai combustibili fossili. Se fosse solo questione di quantificazioni esatte non sarebbe un problema, non trattandosi di compiere un’impresa simile a quella che Stepàn Arkadic, fratello di Anna Karenina, che vendeva partite di legname, giudicava impossibile quanto «contar le sabbie, i raggi dei pianeti».
Adesso che disponiamo di dati telerilevati e sofisticate analisi statistiche serve invece individuare le superfici adatte, le specie idonee al clima e al suolo e a preservare l’indispensabile biodiversità. Bisogna anche disporre di vivai che allevino le piante ed essere certi che per alcuni anni se ne abbia cura per garantire attecchimento e funzionalità.
Con maggior senso della misura la Commissione Ue, il 21 marzo, ha proposto di piantarne 3 miliardi intervenendo su terreni forestali, agricoli, urbani e periurbani. Un obiettivo realistico, sorretto da precise linee guida, perseguito da tante iniziative (tra queste quelle della fondazione AlberItalia che ha tra i fondatori la Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale). Mira a sviluppare insieme funzioni produttive, ambientali e culturali e dare a nuovi alberi, proteggendo al contempo quelli esistenti, i grandi spazi delle terre abbandonate, la compagnia di quelli dei boschi degradati e percorsi dagli incendi, la produttività delle campagne, l’ordine e le passeggiate dei viali urbani e periurbani, il piacere dei giardini. Nella difficile impresa di contenere i cambiamenti climatici, gli alberi hanno un ruolo fondamentale purché la loro ombra non celi la necessità di ridurre drasticamente il ricorso ai combustibili fossili. La questione è comunque planetaria e riguarda prima di tutto la necessità di arrestare la deforestazione delle grandi foreste tropicali e boreali da cui proviene il 70% di quel 10% che si è perso negli ultimi 20 anni. Certo, piantarne anche uno solo è utile (purché sia quello giusto al posto giusto) e lo sapeva Voltaire quando chiedeva che ognuno usasse i propri talenti e coltivasse il proprio giardino e nel 1750 non trascurò di farsi ritrarre da Jean Huber mentre piantava un albero. Se si sprecasse l’occasione europea (e i primi dati per l’Italia non sono confortanti) non rimarrebbe che l’ultima vignetta di una striscia dei Peanuts: dopo che Lucy elenca a Linus le tante utilità degli alberi, appare Charlie Brown desolatamente abbandonato a un tronco perché «se le cose vanno proprio male a un albero ci si può sempre appoggiare».
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All’inizio, 400 milioni di anni fa, quando si imparò a far fuoco, si colsero subito i vantaggi del legno per riscaldare dal freddo, cuocere i cibi e conservarli più a lungo, illuminare la notte, difendersi dalle bestie feroci. Plinio scriveva che gli «alberi sono il dono più grande, con essi solchiamo i mari e avviciniamo le terre, costruiamo le case» e che i loro frutti rendevano «la vita più dolce». Un conto, però, era usare il legno morto, tagliare alcuni rami o singoli alberi, altro era disboscare senza misura per dare spazio all’allevamento e all’agricoltura. Il selvaggio Enkidu, nell’epopea che prese nome dall’amico Gilgamesh, «sgombrava le radici fino alle sponde dell’Eufrate e zattere di cedri come serpenti giganteschi, scendevano il fiume dalla montagna». «Perché avete fatto questo?... D’ora innanzi vi sia il fuoco sui vostri volti», era furioso Enlil il dio della terra, del vento e dell’aria. Ai disboscamenti, seguì la desertificazione, complice un cambiamento climatico, e quando grandi estensioni di alberi vennero meno i danni furono immensi. Parti del Peloponneso, scriveva Platone in Crizia, «sono come ossa di un corpo che è stato colpito da una malattia, perché la terra intorno è scivolata».
Nel tempo, consapevoli agricoltori, giardinieri e forestali, politici avveduti cominciarono a piantare (non “piantumare”, per carità di arboricoltore!). Agricoltori, come Dione, oscuro colono della Tunisia romana del V d.C., ne piantò 4000 (si presume olivi e fichi) e soddisfatto visse ottanta anni in pace, come riporta un mosaico funerario: «in pace vixit annos octaginta et instituit arbores quattuor milia» o appunto il pastore del racconto di Giono che coprì di querce, faggi e betulle i monti della Provenza. Alle ragioni della produzione e della difesa del suolo si univano le raccomandazioni degli uomini saggi. Rousseau invita a piantare un albero anche «se non riesci a immaginare chi un giorno godrà della sua ombra» e quando Catone chiese agli agricoltori perché piantassero alberi risposero «per gli dèi immortali, i quali vollero che non solo ricevessimo tali doni dagli antenati ma li trasmettessimo anche ai posteri».
Il secolo scorso è tempo di pubbliche imprese e vaste superfici. Negli anni del New Deal Roosevelt, a seguito della siccità che desertificò le pianure del Nordamerica sfiancate dalla monocoltura, promosse un progetto che arrivò, tra il 1938 e il 1942, a realizzare barriere frangivento di 220 milioni di alberi per fermare l’erosione e ridurre le perdite d’acqua con un successo innegabile. Uguale intento, ma con diversi esiti, fu quello di Stalin, quando nel 1948, con il “Grande piano per la trasformazione della natura” previde che 6 milioni di ettari delle steppe meridionali, anche esse ridotte in polvere, fossero chiusi da cinture di betulle, querce, frassini e pioppi. In Cina Mao, nel 1956, lanciò il “Grande balzo in avanti”. Il piano “Rendere verde la Madrepatria” avrebbe dovuto interessare 21 milioni di ettari e, in forme diverse, continua. Organizzazioni internazionali si occuperanno dell’Africa con la “Grande muraglia verde” del Sahara avviata negli anni 70.
Adesso, in tempi di conclamati cambiamenti climatici, i numeri crescono e le iniziative assumono confini planetari. Sono numeri mirabolanti sorretti da un successo mediatico che spesso confonde propaganda, greenwashing e selvicoltura. L’Onu, nel G20 del 2021, ha promesso di piantare i 1000 miliardi auspicati utilizzando 900 milioni di ettari. Ci si domanda dove trovare queste enormi superfici, considerando l’inevitabile concorrenza con altri usi del suolo (prima di tutto alimentari) e osservando, a conti fatti, che per questa via si sarebbe raggiunta una efficienza, nella capacità di creare “serbatoi di carbonio”, con potenziale di assorbimento appena pari al 2-8 % delle emissioni che ogni anno provengono dai combustibili fossili. Se fosse solo questione di quantificazioni esatte non sarebbe un problema, non trattandosi di compiere un’impresa simile a quella che Stepàn Arkadic, fratello di Anna Karenina, che vendeva partite di legname, giudicava impossibile quanto «contar le sabbie, i raggi dei pianeti».
Adesso che disponiamo di dati telerilevati e sofisticate analisi statistiche serve invece individuare le superfici adatte, le specie idonee al clima e al suolo e a preservare l’indispensabile biodiversità. Bisogna anche disporre di vivai che allevino le piante ed essere certi che per alcuni anni se ne abbia cura per garantire attecchimento e funzionalità.
Con maggior senso della misura la Commissione Ue, il 21 marzo, ha proposto di piantarne 3 miliardi intervenendo su terreni forestali, agricoli, urbani e periurbani. Un obiettivo realistico, sorretto da precise linee guida, perseguito da tante iniziative (tra queste quelle della fondazione AlberItalia che ha tra i fondatori la Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale). Mira a sviluppare insieme funzioni produttive, ambientali e culturali e dare a nuovi alberi, proteggendo al contempo quelli esistenti, i grandi spazi delle terre abbandonate, la compagnia di quelli dei boschi degradati e percorsi dagli incendi, la produttività delle campagne, l’ordine e le passeggiate dei viali urbani e periurbani, il piacere dei giardini. Nella difficile impresa di contenere i cambiamenti climatici, gli alberi hanno un ruolo fondamentale purché la loro ombra non celi la necessità di ridurre drasticamente il ricorso ai combustibili fossili. La questione è comunque planetaria e riguarda prima di tutto la necessità di arrestare la deforestazione delle grandi foreste tropicali e boreali da cui proviene il 70% di quel 10% che si è perso negli ultimi 20 anni. Certo, piantarne anche uno solo è utile (purché sia quello giusto al posto giusto) e lo sapeva Voltaire quando chiedeva che ognuno usasse i propri talenti e coltivasse il proprio giardino e nel 1750 non trascurò di farsi ritrarre da Jean Huber mentre piantava un albero. Se si sprecasse l’occasione europea (e i primi dati per l’Italia non sono confortanti) non rimarrebbe che l’ultima vignetta di una striscia dei Peanuts: dopo che Lucy elenca a Linus le tante utilità degli alberi, appare Charlie Brown desolatamente abbandonato a un tronco perché «se le cose vanno proprio male a un albero ci si può sempre appoggiare».