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 2023  luglio 15 Sabato calendario

Intervista a Pierluigi Diaco

I l suo difetto più grande?
«Forse quello di ostinarmi a trovare conforto nella malinconia».
Non sembra un difetto. Un altro?
«Queste?».
Le sigarette? Vabbe’... E un pregio?
«Mi piace ascoltare. E va al di là del lavoro: ha sempre fatto parte del mio carattere, anche nel rapporto con la famiglia, con gli amici, con Alessio. Di rado mi capita di parlare di me: più che imbarazzarmi, mi annoia».
Di sicuro, tra i pregi di Pierluigi Diaco c’è che sa incassare. Le critiche su di lui talvolta sono state feroci. Da Montanelli («Cretin-ager») a Filippo Facci («Tuttologo del niente»), da l’Espresso («È nato un mito, anzi un mitomane») a Micromega (sul suo programma Io e te sottolineò «la prevalenza dell’Io sul Te»). Per contro, si è conquistato la fiducia dei grandi del giornalismo: Enzo Biagi, Sandro Curzi, Maurizio Costanzo, Giuliano Ferrara. Ne parla nella sua casa romana immersa nel parco della Caffarella, dove vive con il marito Alessio Orsingher e il loro bassotto Ugo.
Non la feriscono le critiche?
«Francamente no. Ho cominciato a lavorare a 15 anni, ne ho compiuti 46 il mese scorso, ho festeggiato 30 anni di radio. Non ho mai risposto a una critica pubblicamente: chi fa il mio mestiere deve avere il buon gusto di accettare quello che viene scritto e anche di farsi una risata sopra».
Nemmeno un mal di pancia? Mai?
«Non vorrei sembrare poco emotivo, ma le dinamiche del mio lavoro le ho capite subito. Quello che ho fatto è stato possibile grazie alle idee: sono sempre stato autore di me stesso».
Qual è il suo primo ricordo?
«Da bambino costruivo gabbie: volevo fare il veterinario. Catturavo uccelli, rettili, e li studiavo. Il primo choc fu assistere al parto di un criceto. Nessuno mi aveva spiegato che bisognava allontanare il maschio: avrebbe mangiato i figli».
Perse suo padre a 5 anni. Morì davanti a lei.
«Fu un infarto, il terzo. La rete affettiva che mi ha sorretto è stata tutta al femminile: mia madre, le mie tre sorelle più grandi. Sono cresciuto circondato da grande premura, attenzione, rigore, disciplina. E rispetto delle regole, da come si sta a tavola a come rapportarsi alle persone più grandi, solo con il lei. Quando cominciò l’età della ribellione, la vissi con senso di colpa».
Sua mamma è mai stata critica per il lavoro?
«Agli inizi non apprezzava certe spigolature, le polemiche, il fatto di assolvere al compito che i media mi avevano dato, sceneggiato, che poco somigliava a ciò che ero veramente».
C’è qualcosa che non rifarebbe?
«A Chiambretti c’è fui inutilmente e gratuitamente polemico con Mino Reitano. Però legga (mostra un carteggio affettuoso con Grazia Benedetta, la figlia di Reitano, ndr). Ora cerco di usare tanto tatto con le persone: penso sempre che abbiano un mondo interiore complesso».
Però le capita ancora di essere poco gentile. Come quando a BellaMa’ obbligò un’ospite a chiedere scusa per aver detto «che palle».
«È uno di quei casi esplosi attraverso i social. Ma la percezione del pubblico non ha nulla a che fare con quella autoreferenziale dei social, una piccola fiera della vanità dove si amplifica l’odio e si sollevano polemiche per fare traffico».
I telespettatori le scrivono?
«Qui ci sono le lettere dell’ultima settimana (mostra un cestino di vimini, ndr). Quest’altra è la posta dell’ultimo mese (è in un sacco nero)».
Riesce a leggerle tutte?
«Tutte no: mi metto su quell’amaca, nel weekend. Poi rispondo alla radio. Do peso a questo, non all’istinto animale di chi si esprime su uno strumento freddo, mosso dall’invidia».
Ormai avrà fatto pratica con l’invidia: ha condotto il «Tg dei ragazzi» su Telemontecarlo che non aveva nemmeno 18 anni. Un marziano.
«Quello che ho fatto non è stato facile, però ho avuto determinazione, costanza, passione, ma soprattutto la dimensione operaia del lavoro. Non mi è mai stata fatta una critica sostanziale, ma sempre pregiudiziale. È curioso».
La cosa più bella professionalmente?
«Io e te è nato grazie all’amore con Alessio. Senza, non sarei riuscito a entrare nelle case degli italiani in modo così sereno».
Non ha figli, ma ha anche lei una «famiglia queer»: si prende cura dei figli dei suoi amici.
«A me piace molto stare con i bambini, ma quella è una definizione in cui non mi riconosco. La dimensione genitoriale può essere vissuta in tanti modi. Io naturalmente non posso diventare genitore, ma amo i bambini, passo molto tempo con loro, mi chiamano alla radio».
In che modo dà supporto ai suoi amici?
«Da poco sono stato al saggio di fine anno della figlia di una carissima amica: con Alessio siamo andati a vedere i disegni fatti durante l’anno e dopo siamo andati a pranzo tutti insieme. Questa dinamica non si può inserire dentro una definizione o un dibattito politico».
Se la legge lo consentisse, le piacerebbe adottare un figlio con il suo partner?
«Ne abbiamo parlato, se ci fosse una legge lo faremmo. Ma non basta una legge, ci vuole un processo culturale condiviso».
Che effetto le fa vedere una carissima amica diventare presidente del Consiglio?
L’affetto con Costanzo
Di Maurizio mi mancano le telefonate quotidiane, mi ritrovo sempre a comporre il suo numero Il ricordo più bello? Al mio matrimonio: ci ha sposato lui
«A Giorgia mi lega un sentimento di profonda amicizia e affetto e come tutti i rapporti profondi non intendo parlarne pubblicamente».
Parliamo allora dei suoi padri professionali.
«In questa casa ci sono soltanto due foto, oltre a quelle mie con Alessio. Una è con Sandro Curzi e l’altra con Maurizio Costanzo».
Scelga un’immagine con Curzi.
«La più divertente e surreale: quando lo portai con sua moglie Bruna Bellonzi a mangiare indiano al Maharajah, in via dei Serpenti, assieme agli amici di scuola; non aveva mai provato l’indiano. O quando andammo sul mio Metropolis rosso alla Terrazza del Pincio per una diretta».
Cosa le ha insegnato?
«Il senso della notizia, l’intuito. Bigiavo a scuola e andavo a casa sua, mi offriva un piatto e mi faceva fare il riassunto del riassunto di una notizia. Anche se per la sintesi, il maestro è stato Ferrara, ai tempi della mia rubrica sul Foglio».
Ora un’immagine con Maurizio Costanzo?
«Il giorno in cui ha unito civilmente me e Alessio. Era arrivato come al solito mezz’ora prima. Ci aspettava davanti alla porta della chiesa sconsacrata, c’era anche Franca Bettoja, la mamma della mia migliore amica Maria Sole Tognazzi. Era l’immagine della tenerezza».
Cosa le ha insegnato?
«A essere testardo quando serve e ad avere uno sguardo largo sulle cose e sulle persone, a capire in poche parole le ragioni degli altri».
Si è mai chiesto perché le davano retta?
«No. Si saranno rivisti. E poi immagino abbiano intravisto delle potenzialità».
Sta preparando un omaggio a Costanzo?
«Andrà in onda su Rai 1 il 28 agosto, quando avrebbe compiuto 85 anni: si intitola L’altro Costanzo. Io farò la voce guida per 40 secondi, solo nei passaggi indispensabili di raccordo tra un capitolo e l’altro. Vedo una tale rincorsa a esserci in nome di qualcun altro, come un vanto...».
Com’era il «suo» Costanzo?
«Un misto di tenerezza e malinconia».
Cosa le manca di più?
«La voce. Per settimane ho avuto difficoltà a realizzare che non sarebbe stata con lui la prima telefonata del mattino e che non avrei concluso la giornata di lavoro con la nostra chiamata della sera, rapida e affettuosa. Mi capita ancora di essere sul punto di comporre il suo numero. E mi sembra di sentirlo ora mentre mi rimprovera perché sono troppo sentimentale».
Allora passiamo a Enzo Biagi.
«Mi fece chiamare da un autore, era il 2007. Era rimasto colpito da un’intervista che mi aveva fatto Candida Morvillo su A. Mi invitò a Milano per il suo Rotocalco televisivo su Rai 3. Quando presi il treno non sapevo che sarei finito a casa sua, avevo un indirizzo e pensavo a uno studio».
Che impressione le è rimasta?
«Mangiai una minestrina con lui, la moglie e la figlia. Mi colpì la grandissima semplicità, l’umiltà, la premura e l’amore nei confronti di uno dei più grandi giornalisti italiani, che in quel contesto era un marito, un padre. Ho visto la sofferenza del corpo. Ricordo ancora la carezza che mi diede durante l’intervista».
Ha raccontato di aver fatto uso di droghe.
«Parliamo di preistoria. Il vero percorso è stato affrontare la depressione, per la quale ho lasciato SkyTG24. Emilio Carelli e Tom Mockridge non capivano la mia scelta. Ma avevo un grande senso di vuoto, non volevo più vivere».
Non si era spiegato con loro?
«A Carelli lo dissi anni dopo. Il giorno delle dimissioni da SkyTg24 andai da un neurologo che mi indirizzò a un analista. La cura farmacologica durò meno di un anno. La ginnastica intellettuale, chiamiamola così, di più: ho fatto analisi individuale, collettiva e ipnosi».
Come si fa analisi di gruppo?
«Il lavoro su di me è stato nel governare l’ego. Per due anni ho partecipato restando zitto, nonostante volessi parlare. L’analista voleva farmi capire che era più importante la mia persona del personaggio che mi ero costruito».
Perché diavolo ha fatto «L’isola dei Famosi»?
«Per studiare come si costruisce un reality show. Era un’occasione troppo ghiotta per capire le dinamiche autoriali e produttive».
Uno come lei potrebbe condurre il Festival di Sanremo?
«Sarebbe un sogno».
A chi si sente più grato?
«Negli anni della depressione, a Fabio Concato: la sua voce mi ha aiutato moltissimo. Poi a mia madre, per la scala valoriale. Ma la gratitudine più grande va ad Alessio, che mi ha fatto scoprire davvero cos’è l’amore».
E cos’è?
«È stare non l’uno davanti all’altro, ma a fianco. È avere accanto una persona che non ti ostruisce la vista, ma guarda il mondo dalla tua stessa prospettiva».