la Repubblica, 16 luglio 2023
Intervista ad Amedeo Minghi
Classico e moderno, Amedeo Minghi è uno dei nomi più importanti della canzone italiana. Tra i più interpretati al mondo: L’immenso, il primo successo, è stato tradotto in 15 lingue,Cantare è d’amore è diventata così popolare in Sudamerica che «in Brasile la cantavano i tassisti».
Da 50 anni nella musica, Minghi viene continuamente riscoperto: nel 2013, Justine Timberlake ha voluto un campione diLustful,dei primi anni 70, per Only when I walk away :«È stato carino, mi ha chiamato per chiedermi il permesso». Il 21 luglio il musicista, 75 anni, comincia il tour estivo con un concerto al Teatro Romano di Ostia Antica.
La devo chiamare Maestro?
«Questa cosa del Maestro mi perseguita, ma io non c’entro niente. Fu Baudo a chiamarmi così, all’epoca diVicerè,che scrissi con Pasquale Panella. Lo inventò forse per la mia postura sul palco. Del resto, ci sono tipi antipatici e a me succedeva, l’ho sempre saputo: risultavo antipatico, specie agli uomini».
Nel video di “Vicerè” c’è un balletto in costume, lei invece arriva in giacca di pelle e il famoso codino.
«Ho spesso anticipato i tempi. Ho iniziato a farmi il codino nel 1980, prima di tutti gli altri che l’hanno utilizzato più tardi come Fiorello, forse anche prima di Baggio.
Diventò il mio segno distintivo, facemmo una copertina con una mia foto di spalle: era sufficiente il codino a farne un disco di Minghi».
L’incontro decisivo per la sua carriera fu con Edoardo Vianello.
«Un maestro di canto mi mandò da Gianni Ravera, il patron di Sanremo, mi presentai nel suo ufficio con la chitarra, cantai. Mi disse: “A Roma c’è una piccola etichetta in cui potresti trovarti bene”. Era l’Apollo records, alla Collina Fleming di via Guido Banti 46, dove poi sarebbe nata anche la It Records di De Gregori e Venditti, e la Delta di Marco Luberti che lavorava con Richard Cocciante, che ancora cantava in inglese nei film western. Era il centro del cantautorato italiano. Con noi alla Apollo c’erano anche Renato Zero, gli Showman di Mario Musella e James Senese, le sorelle Kessler e i Ricchi e Poveri».
Scoperti e battezzati come Ricchi e Poveri da Franco Califano.
«Che era il direttore artistico della Apollo. Lì Franco diede il nome anche ai Vianella: Edoardo Vianello si era innamorato di un mio pezzo scritto con Edoardo De Angelis, Vojo er canto de ’na canzone, e lo cantò in coppia con la moglie Wilma Goich, nacque così il loro duo ma non aveva ancora un nome. Franco nel suo ufficio diede un’occhiata a un posacenere sponsorizzato dell’etichetta, c’era scritto solo Vianello, e disse: “Ahò, machiamateve Vianella, ma che cazzo ve devo da di’...”. Era fatto così. Era bellissimo e molto creativo ma io e Franco eravamo agli antipodi».
Perché?
«Lui viveva di notte e io di giorno, lui frequentava i night e tutte le cose che si sanno. Io zero, sarò stato al night o in discoteca tre volte in vita mia».
Nel 1976 esplode il suo successo con “L’immenso”, 2 milioni di dischi venduti, ne faranno 15 versioni nel mondo.
«Secondo me le copie sono molte di più, molte non venivano dichiarate.
Per me cambiò tutto, passai dalla It alla Rca, cominciammo a collaborare nelle scuole del Cenacolo inventato da Ennio Melis».
La gloriosa Rca.
«Quegli studi sulla Tiburtina trasformati in un magazzino fanno rabbia. Avrebbe dovuto essere trasformato in un museo: lì ha cantato Frank Sinatra, ha suonato Leonard Bernstein, e poi Ennio Morricone, Moroder, Bill Conti. In Inghilterra l’avrebbero fatto».
Al Cenacolo nacque la sua esperienza con i Pandemonium e Gabriella Ferri.
«E adesso andiamo a incominciare,un disco e uno spettacolo teatrale che portammo in scena al Sistina.
Gabriella era un personaggio enorme, cantante straordinaria, una fuoriclasse assoluta come interprete. Come donna, invece, stendo un velo: era una persona insopportabile, mai puntuale, capricciosa, imprevedibile. Ma quando la sera si alzava il sipario era ogni volta una magia, da brividi».
Incontra l’autore Gaio Chiocchio e con lui scrive “1950”.
«Il mio grande amore sta là: se con la testa sto con Pasquale Panella, con il cuore sto con Gaio Chiocchio».
“1950” fu poi un successo ma arrivò ultimo a Sanremo.
«Venimmo esclusi dalla fase finale e con il Totip arrivammo ultimi. Erano Festival molto pilotati: me li vedo in ufficio i cantanti e i loro manager a mettere francobolli sulle cartoline, giorno e notte».
L’album “La vita mia”, nel 1989, vendette 500 mila copie.
«Ufficiali, ma io credo che quell’album sia arrivato a 3 milioni di copie. A Napoli, quando andavo a mangiare al ristorante, in segno di ringraziamento mi mandavano le bottiglie di champagne al tavolo».
Fu un traino enorme per “Vattene amore” di Sanremo ‘90.
«Sì, ma non doveva essere un duetto. Al Festival doveva andare di diritto la sola Mietta, che aveva vinto l’anno prima tra i giovani. Il problema fu che nell’88 aveva vinto un gruppo ma nell’89 Aragozzini non li volle tra i Big, non gli piacevano e modificò il regolamento. C’era così la possibilità di un ricorso contro Mietta, e la casa discografica consigliò di trasformare la sua partecipazione in un duetto.
Un escamotage».