La Stampa, 15 luglio 2023
Dell’Utri déjà vu
Déjà vu.
L’altro giorno, leggendo la notizia – davvero clamorosa – della perquisizione nell’abitazione e nello studio dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, considerato un istigatore della campagna stragista del 1993, ho avuto un momento di deja vu.
Il deja vu, fenomeno psichico più comune di quanto si pensi, consiste in una forte sensazione di aver già vissuto nella propria vita, un particolare momento, un particolare incontro; di aver già visto un faccia, vissuto una gioia o un dolore. Non esiste un’interpretazione univoca del fenomeno, che però pare non sia grave: viene piuttosto considerato come un benevolo scherzo della memoria.
Il mio déjà vu è preciso, ed è legato a questo giornale. È il 22 marzo 1994, mancano pochi giorni alle elezioni politiche nelle quali si comincia a prevedere la vittoria di un partito nuovo di zecca, la Forza Italia di Silvio Berlusconi, nata appena due mesi prima. Il clima è “maledettamente teso” e io sono un giornalista che conduce un programma televisivo quotidiano che naviga in mezzo al tumulto politico. Sto leggendo la prima pagina de “La Stampa”, dove c’è uno scoop: Luciano Violante, il presidente comunista della Commissione Antimafia, il coraggioso che, per la prima volta nella storia della Repubblica ha dichiarato guerra a Cosa Nostra, che ha portato alla sbarra Andreotti; l’uomo che sovraintende la gestione dei pentiti, che sovraintende sulle procure e sui corpi speciali della polizia, annuncia al giornalista Augusto Minzolini (il più talentuoso cronista dell’epoca, in grado di farsi rivelare dagli uomini più importanti i segreti più segreti) che Marcello Dell’Utri è indagato a Catania per traffico di armi e stupefacenti e sta per essere arrestato (l’articolo, una vera chicca della memoria, è consultabile sull’archivio web de “La Stampa").
E quindi, nel mio déjà vu, Marcello Dell’Utri è già stato arrestato; e questo spiega il mio straniamento di oggi alle notizie che lo riguardano: Dell’Utri è stato arrestato una seconda volta?
C’è una spiegazione a questo scherzo di memoria. È che nel marzo 1994 Marcello Dell’Utri non venne arrestato e anzi, quelle confidenze a Minzolini costarono carissime a Violante, che si dovette dimettere da presidente dell’antimafia, farfugliando. Berlusconi invece sfruttò al volo l’occasione: «Avete visto tutti, c’era un golpe contro di noi, ordito dai comunisti!». E pochi giorni dopo vinse le elezioni. Il resto della storia la sapete, immagino, anche perché in trent’anni ce l’hanno fatta mangiare in tutte le salse.
Già. Però a me è sempre restata una domanda: perché Dell’Utri non venne arrestato, trent’anni fa? Era davvero un trafficante di armi e droga? C’era davvero quell’inchiesta a Catania? Nessuno ne seppe più niente. Per quanto riguarda Luciano Violante, si disinteressò piuttosto velocemente del tema mafia, a cui si era così appassionatamente dedicato.
Ed ecco che Dell’Utri torna di moda, come un Indiana Jones all’ultimo spettacolo. Il suo nome e il suo ruolo nella storia d’Italia riverbera leggendo le motivazioni delle perquisizioni ordinate dalla procura di Firenze, che, in effetti, sono clamorose: Dell’Utri, insieme a Berlusconi testè defunto e quindi non più perseguibile, è accusato di aver istigato il boss palermitano Giuseppe Graviano a mettere bombe in giro per l’Italia per minare il governo di allora (Ciampi), seminare il panico e favorire quindi l’ascesa di Forza Italia, partito politico costruito dal Dell’Utri medesimo insieme a Cosa Nostra. Difficile trovare, in un modesto mandato di perquisizione, un tale concentrato di esplosiva verità storica: il documento firmato dalla procura di Firenze segna una svolta netta dopo trentanni di depistaggi, menzogne, coperture, trattative, cerimonie, salamelecchi, lutti nazionali che intorno alla vicenda si sono susseguiti. Trent’anni dopo, dall’interno di una magistratura che è stata catastrofica e arrogante nei suoi errori, arriva un giudice dalla memoria lunga. Uno dei firmatari del documento si chiama Luca Tescaroli, nato a Lonigo (Vicenza) 58 anni fa, conosce bene la materia. Una sua prima inchiesta, già trenta anni fa, aveva individuato nel binomio Berlusconi-Dell’Utri, la radice del male, ma fu facilmente bloccata dai suoi superiori; ma tenne duro. Tescaroli sa, e non da oggi, che la verità sulle stragi era già nota al procuratore nazionale antimafia fin dall’inizio, che il clan dei Graviano aveva confessato subito, che il famoso pentito Spatuzza aveva detto a tutti la verità fin dal giorno del suo arresto; che il clan Graviano era protetto dai servizi segreti; che l’arresto di Riina fu una messa in scena; persino che l’ultimo personaggio televisivo, quel Baiardo che rivela segreti, quei segreti li aveva già raccontati trent’anni fa. Tescaroli sapeva tutto, ma non poteva dirlo. Non si poteva dire nel 1994, perché Forza Italia aveva vinto le elezioni e, in democrazia, non si può arrestare chi vince le elezioni; non si poteva dire quando Berlusconi andò all’opposizione, perché in democrazia non si può arrestare il leader dell’opposizione; meglio venire a patti. E così è stato.
Ora però Tescaroli l’ha detto, e questo indubbiamente fa premio alla sua tenacia e alla sua onestà. Purtroppo, però, non servirà a molto. Troppo tempo è passato, le emozioni e i drammi vissuti nel passato, non sono destinati a tornare. E soprattutto Silvio Berlusconi è morto, innocente, anzi perseguitato dalla giustizia, anzi santo laico per cui appena un mese fa l’Italia ha messo le bandiere a mezz’asta e ha proclamato un lutto nazionale.
Francamente, la sorte di Marcello Dell’Utri interessa a pochi. Dovrebbe essere interrogato il 18 luglio a Firenze e i suoi avvocati lo consiglieranno per il meglio, tenendo conto anche delle sue condizioni di salute, dell’età e della commozione che ha avuto – «un pianto senza fine» – quando ha appreso di aver ricevuto dal suo amico Silvio («una vita insieme») un inaspettato lascito testamentario di 30 milioni di euro. Difficile che possa cambiare la linea di condotta che ha seguito per trent’anni; al massimo potrà avere delle noie per dei trasferimenti di denaro un po’ opachi, ma niente più. E dunque, l’inchiesta di Tescaroli si fermerà lì.
Dentro il mondo berlusconiano, peraltro, nessuno si scalda più di tanto. E dire che Marcello era stato il fondatore del partito e il suo organizzatore in vent’anni di vittorie elettorali; oh, quanto sono irriconoscenti i dirigenti di Forza Italia di oggi! Una volta facevano la fila – e pagavano il dovuto – per essere messi in lista in un buon collegio.
Rispetto al canovaccio trentennale – trent’anni in cui tutti noi cittadini siamo stati educati alla Democrazia, alla Legalità, al Culto degli Eroi Morti, ma anche al Culto di Chi ha contribuito ad Ucciderli – l’unica novità è rappresentata da una banale questione di soldi. Ad alimentare l’ultimo capitolo dell’inchiesta sono stati, come ormai si sa, i terribili fratelli Graviano che sostengono di essere soci fondatori della Fininvest e che bombardarono l’Italia per impedire che nel 1994 vincessero i comunisti. Sono in galera dal lontano gennaio 1994, quando vennero arrestati, felici e contenti per “aver chiuso l’affare”, in un ristorante di Milano. Erano notoriamente da tempo in rapporti d’affari con Berlusconi e con Dell’Utri; il giudice Tescaroli oggi scrive che furono loro a mettere le bombe, “istigati” da Dell’Utri. Loro, praticamente confermano e però non si spiegano perché vennero arrestati, nel gennaio del 1994, alla vigilia di uno spaventoso attentato allo stadio Olimpico di Roma.
In effetti Il loro arresto fu strano, soprattutto perché passò sotto silenzio e non interessò nessuno. I loro legami con Berlusconi e Dell’Utri verranno fuori – a spizzichi e bocconi – vent’anni dopo. Da un po’ di tempo, però, i Graviano dicono che fu il loro socio Dell’Utri a farli arrestate. Chissà se è vero. Se fosse così, tutto avrebbe una spiegazione: Marcello Dell’Utri, il grande tessitore, li fece arrestare e rese un servizio allo Stato. Fu per questo che lui, Dell’Utri, non venne arrestato.
Chissà chi la sapeva questa storia, all’epoca. Sicuramente non Luciano Violante, che si vantava di sapere tutto. Dell’Utri fu nettamente più furbo di lui.
Sapremo mai di più? Dubito, è passato troppo tempo. Quella che successe in Italia fu una delle tante storie di mafia e, come diceva Peter Clemenza nel Padrino numero 1: «Michael, ogni tanto queste guerre succedono, è bene saperlo ed è bene intervenire in tempo. Hitler bisognava fermarlo a Monaco».
E noi non lo facemmo. Se c’è una cosa che la storia ci ha insegnato è che Hitler non viene mai fermato a Monaco. —