La Stampa, 16 luglio 2023
Intervista a Gianni Morandi
«Ci vediamo la prossima volta, con un sorriso come quello di stasera». Certamente il suo, a cui il sorriso non manca mai, ma anche quello del pubblico: mi giro e vedo solo sorrisi, come è inevitabile dopo due ore in cui sei stato scarrozzato a 100 all’ora fra ricordi ed emozioni, canzoni italpop ante-litteram e canzoni d’autore di raffinata scrittura, con una gran bella big band di undici elementi che ha svariato fra morbidezze e passaggi rock. Alla guida, quello che da ragazzo prodigio è diventato l’eterno ragazzo, cortese nell’animo e nei gesti, con quelle due manone ferite e quasi guarite che di persona ti toccano spesso, come ad assicurarsi che il contatto ci sia.
Gianni è tante cose, lui sì che contiene moltitudini, quello a cui aspirano in tanti ma che vale solo se hai una storia dietro, e hai lasciato un segno nella vita di molte persone. Una di quelle sono io, che esattamente 60 anni fa a Spezia avevo mandato la mia mamma non a prendere il latte, ma «quel» 45 giri, il mio primo. Pre Beatles, Stones e tutti gli altri. Ieri sera sono arrivato in città, e il primo manifesto che ho visto diceva che Gianni Morandi la sera dopo era in Piazza Europa.
Quando glielo dico, rimane un po’ colpito anche lui, ma subito si schernisce «sì, ma voi ci schizzavate. Vi piacevano altre cose». Per Noi Giovani, intende. Sì, certo, anche, ma il primo disco è come il primo bacio, non si scorda mai, e un idolo giovanile è nel tuo Dna per sempre, nonostante tutto quello che può venire dopo. A meno che non lo abbiate scelto proprio male, problema vostro. È una questione di radici, e di memoria di tante generazioni, che ha molto a che fare con le due ore tirate di spettacolo che hanno spaziato su sessant’anni di storia, sua personale e di tutti coloro che lo hanno ascoltato, visto, seguito. Che sono proprio tanti. In 35 canzoni, con un gran bel suono (Pino Pischetola, grande ingegnere del suono, al mixer), Gianni racconta se stesso, una metafora nella quale ci si può riconoscere: un ragazzo – di popolarità pari e superiore a quella degli influencer di adesso – che si è smarrito, si è ritrovato e ha scoperto che lui è quell’uno su mille che ce l’ha fatta a rimanere in quota. Ed è benvoluto come pochi in tutto l’ambiente. Gentile, ironico ed autoironico, mai una parola contro qualcuno, e mille aneddoti da raccontare, se solo fa clic e parte.
«Come ho vissuto quei primi anni? Non mi sono accorto di quello che succedeva, tutto così in fretta, non avevo neanche vent’anni...». Siamo agli albori della musica leggera italiana, la RCA del geniale Ennio Melis che dominava il mercato, una squadra di qualità suprema. Ennio Morricone alle prime armi, arrangiatore seriale originalissimo, a suo dispetto. «Quando ha portato quello di In Ginocchio da Te Migliacci gliel’ha rimandato indietro, “no Ennio, così non va”. E così una seconda volta, lui che arrivava sempre con quei faldoni di partiture scritte a mano, tutta musica solo nella sua testa. Alla terza, quel “dan dadadan” di archi, e Migliacci esulta: “Grande Ennio, ecco, ora sì che ci siamo”. Al ché il futuro premio Oscar se ne andò indignato... “questa è robaccia!"».
Ma quel periodo di successo pazzesco all’inizio degli anni 70 era svanito, i cantautori erano la cosa nuova. Era un periodo giù: «Molto giù. Non sapevo più che fare, pensavo fosse finita, finché un chitarrista bravissimo, Gangi, mi dice “ma perché non studi un po’ di musica?” Ho fatto cinque anni di Conservatorio, specialità contrabbasso, ma suonato con l’arco non quello jazz, quello solo per scherzo con Lucio al clarino». Negli anni 80 la dura risalita: «Un giorno mi chiama Mogol: ah però, pensai. Invece… “Ciao Gianni (imitazione della voce tremula e milanese perfetta), tu sai giocare a pallone? Perché vorrei fare una squadra di cantanti». Vedi la vita. A sorpresa nel backstage arriva la violista americana liguriarizzata che suonava proprio nel gruppo con cui Gianni girava a cavallo fra gli anni 70 e 80: «Cantavo canzoni di vari autori, un po’ di tutto: Eleanor Rigby, Nina di Maurizio Monti, Battisti, il Bennato di Un Giorno Credi’. “Un giorno credi di essere un grande uomo, in un altro ti svegli e devi cominciare da zero...» era per me.
«I miei cantati preferiti? George Michael, Mick Jagger, guarda come corre ancora a 80 anni». Anche tu corri, no? «Uhmmm, solo su terreni morbidi», nella sua campagna non mancano. E Peter Gabriel. Gli mostro un clip del suo magnifico show di Milano e rimane affascinato. Si parla del perfezionismo di Baglioni, «in tour si arrabbiava perché facevo un accordo diverso sulla chitarra, “ma Claudio, è spenta”, “sì, ma qualcuno si potrebbe accorgere che non è l’accordo giusto!"», del grande rispetto di entrambi per Battisti e Modugno che han cambiato la canzone italiana: «Avevo 13 anni, andai con mio padre a vedere Sanremo al Bar Marchioni, tornai entusiasta. Mamma che l’aveva sentito alla radio era arrabbiata, a lei piaceva solo Claudio Villa». Vedi che non siamo poi così diversi di gusti? (e quel «Go Gianni Go Tour» non assomiglia parecchio al Go Johnny Go di Chuck Berry? ).
Gianni sarà nato a Monghidoro, ma ha l’attitudine e la presenza scenica di un grande showman americano. Ha una voce piena che tira fino al limite e, marchio di fabbrica, molto intonata a 78 (non giri ma anni): Canzoni stonate accoppiate a Morandi è un ossimoro. Intrattiene, scherza, spesso anche sul tirare il fiato, «come dice Fiorello, da eterno ragazzo a eterno riposo è un attimo». Dà grande spazio ai coristi e ai musicisti, tre fiati che riempiono tanto, il maestro chitarrista che trasforma Un Mondo D’amore in un reggae e poi in una jam percussiva, assolo della bassista incluso. Gianni è un classico (in total white stasera) ma le canzoni sono rivestite bene, molte una dentro l’altra. C’è una parte con la chitarra a tracolla e il medley degli inizi, «un mondo che non c’è più», canzoni di due minuti e mezzo, a volte veloci come schioppi (Andavo a 100 all’Ora, Go-Kart Twist, Fatti Mandare dalla Mamma); c’è il ricordo di Dalla, col trittico Vita (dal loro album/tour insieme) molto r’nb, Futura e Caruso, toccanti, che termina con un dito al cielo. «Sai, Lucio è un po’ ovunque a Bologna, ti aspetti di vederlo sbucare da dietro una colonna, c’è la sua statua seduto che guarda la casa dove è nato. Lucio è ancora fra noi».
Si chiude con il «suo» Un Giorno Credi, Uno su Mille Ce la Fa, ancora Migliacci vent’anni dopo: «Se sei a terra non strisciare mai Se ti diranno sei finito non ci credere», che sigilla il percorso. Nei bis Si Può Dare di Più, la parte di Ruggeri imitata alla grande, quell’inno sul quale sia Mogol che De Andrè erano scettici, «non venderai una copia. Ma dove vai con questo?». «Dopo la vittoria chiamo De Andrè: oggi abbiamo venduto 5mila copie. Belìn. Il giorno dopo: oggi abbiamo venduto 15mila copie. Belìn! Il terzo giorno lo chiamo: Fabrizio, 22mila copie ieri. “Belìn, non mi chiamare più!». Si chiude con Evviva!, insieme ad Allegria e Apri Tutte le Porte scrittura e produzione di Jovanotti, Gianni molto contento che ci siano anche brani nuovi, «forti», in scaletta.
Ma tu, che le hai cantate milioni di volte, cosa senti mentre le canti? «Penso a dove ho già cantato quella canzone, mi vengono in mente delle immagini del passato, mi scorre la vita davanti, a volte». È quello che succede anche in platea, in molti concerti e tanto più in questo.
E, tornando per via Chiodo penso, fra me e me, che quel ragazzino di Spezia di 60 anni fa aveva scelto proprio bene. —