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 2023  luglio 16 Domenica calendario

Se in Italia ci fosse ancora Draghi


Di Mario Draghi non si può certo dire – storpiando il Churchill così di moda in questo periodo – che sia un mistero; ma un enigma sì. Troppo pubblica la sua vita per essere misteriosa, ma insondabili, anche per le persone che gli sono più vicine, restano le sue aspirazioni, le sue intenzioni. Un anno senza Mario Draghi. Il 21 luglio dello scorso anno l’italiano più conosciuto al mondo e il più stimato negli ambienti internazionali, si dimetteva.
Dopo una doppia battuta di arresto di un percorso politico che tutti – almeno a parole – proiettavano in un lungo futuro del nostro paese. Nell’anno trascorso da quella data, il suo nome è progressivamente arretrato nell’attenzione pubblica, e anche la sua eredità politica sembra lontana. Ma le domande, i “se”, i “forse” e i “perché”, affiorano regolarmente nelle conversazioni pubbliche e private, muovendo le acque dello stagno in cui regolarmente tende a cadere la politica italiana. A dispetto dei toni ottimistici, il paese ha di fronte problemi economici molto seri e una collocazione internazionale che lascia pochi spazi di manovra.
Come sarebbe stato questo stesso anno, se Mario Draghi fosse stato eletto presidente? Saremmo qui o in una condizione diversa? È un gioco, forse, ma rivelatore di tante cose.
Per questa ricostruzione propongo tre segmenti, i tre momenti che hanno fatto girare la storia del governo Draghi e che rimangono ancora poco spiegati: le dimissioni, la presidenza che poteva essere, il futuro. Le fonti di questo articolo sono gli amici/collaboratori, e altre fonti che già mi hanno aiutato per il libro “L’Inquilino”, storia dei governi italiani da Monti a Meloni, uscito per Feltrinelli, a dicembre del 2022.
Capitolo 1) Dimissioni o cacciata?
Intorno alla decisione presa dal Premier ancora oggi c’è una incerta narrazione pubblica. Alimentata soprattutto dalle forze politiche, e non solo della destra, che avevano attivamente lavorato contro l’ex governatore della Banca d’Italia e della Bce. Nel suo discorso, il 21 luglio del 2022, il Presidente del Consiglio non indica mai azioni di forza contro di lui, sottolinea anzi la sua decisione. Il piacere dei suoi avversari, in ascolto, diviene a quel punto doppio: Draghi non solo sgombra lo studio giallo a Chigi, ma lo fa senza accusare nessuno. Alleluja. Nel clima di sollievo generale ci sarà anche modo di fargli molti complimenti, che tanto a chi va via non si risparmiano mai. La narrazione si espande e si codifica col passare delle settimane, quando l’arrivo del nuovo Premier, Giorgia Meloni, viene indicato come un elemento di continuità – la famosa eredità dell’agenda Draghi. Una idea che, si capirà, sarà soprattutto usata per legittimare un nuovo leader messo sotto scrutinio dal governo dell’ Europa e spesso diversamente posizionata nelle relazioni internazionali.
Dunque, dimissioni o cacciata? «Fu un licenziamento». Il tempo e l’acqua passati sotto i ponti, rendono più facili le risposte. «Un licenziamento durato mesi e avvenuto in vari passaggi», risponde uno dei suoi collaboratori a Chigi. «E oggi con il senno di poi non riesco a non pensare che Salvini e Tajani che furono i protagonisti dell’attacco, in qualche modo stessero tentando di anticipare l’arrivo di Meloni. Non credo di sbagliarmi».
Il primo dei passaggi di questo Lungo Addio è la deflagrazione dell’ordine su cui si basava il governo Draghi: un governo di Unità Nazionale, formula difficile nella esperienza del paese, costruito su un mandato «non politico» come detto da Mattarella nell’annuncio con cui nel febbraio del 2021 aveva fatto il nome di Draghi. Una maggioranza amplissima, sulla carta del 94 per cento e che fuori lasciava solo quel 6 per cento dell’unico partito, FdI, che avrebbe poi vinto le elezioni con Meloni. La deflagrazione è la mancata elezione di Draghi al Quirinale il 29 gennaio 2022, da parte di quel 94 per cento. È la fine di fatto del governo, perché svela che quella maggioranza esisteva solo sulla carta. «Draghi capisce che è finita per il suo governo. Ma con l’obbedienza del tecnico continua il lavoro. Sul suo tavolo a Chigi siedono alcuni dossier con un futuro lungo davanti: il Pnrr, che è il suo primo atto politico – la differenza con la gestione di Conte subito rivelata – portato fuori da Chigi, messo nelle mani del ministero delle Finanze, e approvato il 13 luglio del 2021; c’è poi l’eredità del Covid, e infine la Guerra scoppiata a sorpresa fra le mani degli europei il 20 febbraio 2022, proprio a ridosso dell’elezione del Presidente italiano. La politica nazionale si (ri)mette in moto subito dopo l’indebolimento di Draghi, soprattutto sui dossier più specifici italiani: le nomine nelle partecipate, un bottino di più di 400 incarichi, il catasto, la riforma fiscale, e altre misure controverse, tipo i taxi e i balneari.
«È proprio in queste pieghe nazionali che si sviluppano gli atti del licenziamento. Il secondo passaggio, l’anticipo del licenziamento, è la lettera sulla delega fiscale alla Camera. Il governo non cade allora solo per un voto, grazie a Lupi». Oggetto dello scontro è la più classica delle questioni nazionali, il Catasto, la cui riorganizzazione rimanda alle tasse sulla casa, la madre di tutte le battaglie politiche italiane. La revisione dei criteri per la mappatura catastale tiene in scacco la commissione Finanze alla Camera per tutta la giornata e alla fine la riforma si salva con un 23 a 22, sull’emendamento del centrodestra che chiede di cancellarla. Un solo voto che mostra tutte le difficoltà che da quel momento iniziano nella larghissima alleanza di governo. La Lega ad esempio annuncia che sul fisco da quel momento in poi si ritiene con le mani libere. Per capire il clima basti ricordare che in quel pomeriggio Draghi cerca direttamente Silvio Berlusconi per convincerlo a non seguire la Lega e tenere insieme la maggioranza. Ma la casa non si tocca, risponde il Cavaliere, ricordando di essere quello che ha tolto l’Imu. «Inizia un periodo in cui ogni azione, all’ombra della guerra, attiva effetti collaterali». Una maggioranza così vasta deve per forza farsi male da qualche parte. Il governo Draghi sembra procedere a strappi. Il Pnrr va bene e incassa due tranche più un anticipo dei soldi europei. Ma le riforme non procedono. Concessioni e balneari tornano sempre a galla, a destra. Il superbonus è materia di contendere con i 5 Stelle. Ma nemmeno con i sindacati si procede bene. La sinistra politica oscilla tra difesa e attacchi al «governo delle elite internazionali».
«La lettera finale di licenziamento (terzo passaggio) è firmata dal Senatore Calderoli» che il 20 luglio propone al Senato di sostenere il governo messo in crisi dal mancato voto dei 5 Stelle sul decreto Aiuti (in cui c’era il termovalorizzatore di Roma), a patto che il governo sia «profondamente rinnovato sia per scelte politiche sia nella composizione». La richiesta vuole una nuova maggioranza senza i 5 Stelle e un rimpasto mirato al cambio al Viminale e alla Sanità. Draghi rifiuta di fare un governo senza 5S «spaccando lui la sua stessa maggioranza».
Insomma, alla fine, le dimissioni di Draghi potrebbero essere catalogate come di tradizione anglosassone: uscire con i propri piedi evitando l’onta di essere cacciati. «Lo spirito fu quello: evitare di avere la porta sbattuta in faccia». E ce ne fossero di più di questo tipo, viene da dire. Forse, anche l’infelice vittimismo italiano diminuirebbe di dimensione e si allenerebbe, forse, una nuova generazione di guerrieri politici.
Capitolo 2) Che presidente sarebbe stato?
La domanda non può che formularsi partendo da un altro elemento narrativo che ha in qualche modo intorbidito le acque di una valutazione serena sulla discontinuità dell’uscita di Draghi dalla politica italiana. Mi riferisco alla supposta eredità dell’agenda Draghi presa nelle mani da Giorgia Meloni. Intanto, quando nasce questa idea? «Nasce con la guerra in Ucraina. Lei è in quelle circostanze una vera pretoriana del Premier, nonostante lei non abbia votato il Pnrr, va ricordato». Nella valutazione di oggi questo posizionamento sull’Ucraina della Meloni sembra abbastanza strumentale, però. «Sì. In una situazione in cui la vicenda guerra veniva fortemente utilizzata in Italia in maniera altrettanto strumentale da Conte, Salvini e da una parte stessa delle sinistre». Col tempo tuttavia la questione dell’eredità svanisce: «Diciamo che per tutto il ’22 i rapporti sono buoni. Sui conti pubblici il nuovo governo non crea problemi, fino a fine anno, con l’approvazione della finanziaria». La rottura sulla “concordia” fra il governo Draghi e quello Meloni «si fa abbastanza chiaro quando comincia di nuovo il ballo identitario del nuovo governo. Parliamo di nuovo di catasto, balneari, tassisti. Il loro interesse è sui singoli punti identitari sganciati dal resto».
Al momento quell’eredità «è di fatto finita».
A maggior ragione la seguente domanda su che tipo di Presidente – e con quali effetti politici- sarebbe stato Draghi, risulta dirimente.
Il mio interlocutore inizia da una doverosa (e rispettosa) descrizione delle differenze fra il Presidente in carica Mattarella e l’Ipotetico di cui parliamo: «Fra i due occorre distinguere: Mattarella è un uomo che dà il suo meglio nelle crisi politiche, Draghi lo dà nelle crisi economiche».
Draghi inoltre, aggiunge, «è sicuramente, fra tutti i candidati presidenti possibili in passato, l’uomo che gode di rispetto ma ha anche accesso totale al mondo anglosassone – quello delle banche, della finanza, ma soprattutto quello politico di Washington».
Con queste caratteristiche «avremmo avuto sicuramente una situazione di vantaggio su due o tre macro-questioni, in cui la presenza di un presidente come Draghi, pur nel rispetto delle prerogative del presidente del Consiglio, avrebbe fatto una totale differenza». Sulla guerra saremmo stati, ad esempio «nella cabina di regia, con Francia e Germania, come si è visto». Va aggiunto che quella cabina di regia si è totalmente disfatta nel corso del tempo, «ma è anche vero il contrario, cioè che forse una presenza italiana nella triade dei fondatori, presenza attiva per ragioni di conoscenza e stima precedenti, avrebbe avuto anche la capacità di potenziare i rapporti con Macron e Germania, e fra Macron e Germania. E la presenza di una Italia nei luoghi decisionali e in rapporti molto stretti anche con Washington avrebbe aggiunto ulteriore peso alle relazioni transatlantiche». Il mio interlocutore, tornando alla questione dei ruoli istituzionali aggiunge: «Credo che l’impatto maggiore che avrebbe avuto dal Quirinale Draghi è proprio nei rapporti con Macron e Biden, perché sarebbero stati rapporti fra Capi dello Stati». Certamente buone relazioni con Francia e Usa non sarebbero state di poco conto, considerando quanto siano complicate le frizioni Franco-Italiane dell’attuale governo, e quanto distante si sia tenuta Washington dal governo Meloni, invitata in Usa solo il 27 luglio, cioè 10 mesi dopo il voto.
Il vantaggio di Draghi sarebbe stato dunque sicuro nella stabilizzazione dei rapporti internazionali, ma soprattutto avrebbe facilitato il dibattito con l’Europa sulle questioni economiche. L’inflazione è stata fin qui il principale argomento di incertezza e discussione sul futuro occidentale, e il campo italiano – accortamente rimanendo nei ruoli consentiti – avrebbe potuto avvantaggiarsi dell’esperienza di un Presidente che viene da quel mondo. «Le prospettive economiche italiane non girano bene, la situazione del Pnrr nemmeno, e non ci sono dubbi sul fatto che una moral suasion presidenziale si sarebbe avvertita».
Forse anche con qualche sorpresa: «Per esempio sull’inflazione Draghi ha in parte rivisto le sue stesse opinioni. All’inizio pensava che l’inflazione si sarebbe presa cura di sé stessa, che avrebbe fatto un percorso non gravoso. Oggi non la pensa più così di sicuro».
Accanto a tutto questo positivo, va ricordato però anche che il Presidente Draghi avrebbe comunque avuto molti oppositori nel paese, proprio per tutti questi suoi legami ed esperienze. L’opposizione a sinistra a Draghi, conosciuta anche nel Pd, lo ha sempre definito un uomo delle elite, delle banche, delle grandi massonerie. Draghi al Colle avrebbe avuto come nemici i 5 Stelle, la sinistra-sinistra, parte degli stessi sindacati. «Sicuro. E avrebbe riscontrato gli stessi giudizi nella destra più identitaria e sovranista». Sarebbe stato insomma un Presidente intoccabile, ma anche oggetto di una permanente agitazione politica.
E nel Pd? Che influenza avrebbe avuto la sua elezione al Colle? Avrebbe consolidato quel partito che all’epoca del suo governo lo ha sostenuto con convinzione, anche se non sempre con unanimità? Riducendo la domanda all’osso: la Schlein sarebbe stata la segretaria del Pd, se Draghi fosse al Colle? O dal Colle avrebbe di fatto provocato una spaccatura del Pd anche più radicale di quella attuale? È una classica domanda impossibile, fatta veramente per assurdo, e la risposta è diplomatica: «La Schlein è il prodotto di una modernità del partito che non avrebbe avuto impatto in un modo o nell’altro con il Colle».
Capitolo 3) Il futuro è ancora il Colle per Mario Draghi?
«Draghi oggi ha ripreso a muoversi. Lo ha fatto più volte recentemente ma sempre fuori dall’Italia. In sedi estere, e sui suoi temi preferiti. Io vorrei e gliel’ho detto che invece ricominciasse a muoversi in Italia. Perché non è più solo quello che era prima, ma è in ogni caso un ex Presidente del consiglio e gli italiani si aspettano di ascoltare anche la sua voce. Non so se accetterà questo consiglio, però».
E il Colle? «Non credo ci siano le condizioni. O meglio, solo condizioni davvero drammatiche, soprattutto in economia, potrebbero creare una nuova possibilità alla sua elezione. Circostanze che nessuno di noi si augura». Cosa su cui nessuno può dirsi in disaccordo.