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 2023  luglio 15 Sabato calendario

Intervista a Gabriele Muccino

Tranquillo e rilassato, Gabriele Muccino risponde al telefono dall’auto che lo sta riportando a casa dopo aver finito di girare alcune scene dell’episodio di cui è protagonista – stavolta recita e interpreta se stesso – nella seconda stagione della serie Sky Call My Agent. A 56 anni il regista romano non si ferma un attimo: dopo il successo della seconda stagione di A casa tutti bene, che ha appena vinto il premio per la miglior serie all’Umbria Cinema Festival, diretto da Paolo Genovese (la consegna a Todi ci sarà il 21 luglio, a ritirarlo andrà Francesco Scianna), fa su e giù con Palermo, dove a settembre per sette settimane girerà il nuovo film.
Uno così attento come lei a prevenire la noia dello spettatore, in “Call My Agent” che Muccino porterà in scena?
«Ahahahah (ride)... La parte è cucita addosso a me, con tutto il grottesco e le esagerazioni che fanno parte di questo progetto. Quindi, come tutti gli altri personaggi coinvolti, metterò a nudo in maniera parossistica quelle che sono le mie peculiarità».
Quindi si correrà, si piangerà, si urlerà?
«Per forza (ride). E non solo...».
Lei ha sempre un agente?
«Certo. Mi serve per gestire le scelte che faccio, i contratti, le carte: le rogne...».
Anche per lei la percentuale è del dieci per cento?
«Sì, anche per me è quella».
La terza stagione di “A casa tutti bene” ci sarà o no?
«Non lo so. Devo capire se riesco a mettere insieme idee forti. Se la storia sarà all’altezza, si potrà fare tra un anno e mezzo».
Non aveva detto che le serie funzionano se sono di una sola stagione, come “La regina degli scacchi”?
«Per me il massimo è una miniserie di sei-otto ore. E la mia era nata per avere due stagioni. Una durata così offre il privilegio di indagare i personaggi e le emozioni in un modo che un film non può mai lasciarti fare».
Nel 2016 è rientrato in Italia ed è tornato ad avere grande successo: in generale, adesso, che partita sta giocando?
«Quella di chi deve ancora iniziare a giocare. Non riesco ad accontentarmi di quello che ho fatto, anche se ormai ho quasi creato un brand, e ho un pubblico composto da genitori e figli».
L’avrebbe mai detto?
«Mai avrei pensato di raggiungere un linguaggio così personale e riconoscibile. Credo che ogni cosa sia stata la conseguenza di quello che ho fatto prima e che di mezzo ci sia anche la fortuna. Sto meglio perché non ho piu l’ansia da prestazione dei primi anni, anche se ho sempre una gran paura di sbagliare. Sul set non vado mai convinto di avere la soluzione in tasca. Ogni giorno è una battaglia e sono pronto a tutto. Il regista quando gira oltre a tenere le fila del racconto deve risolvere problemi di ogni tipo, e deve riuscirci sempre in pochi minuti».
Cosa la guida?
«Esperienza, istinto e talento. Messe insieme queste cose aiutano ad affrontare il viaggio».
E finora con quale spirito è andato in giro?
«Spavaldo, temerario, incosciente. E anche provocatorio. Tutto quello che faccio è così».
Lo è ancora o è invecchiato?
«Sono lo stesso, mi fa paura pensare che potrei non esserlo più, ma per ora sono tranquillo: giocare alla roulette con tutto mi viene naturale. La tranquillità non fa per me e i film so farli solo così».
Il prossimo, che girerà a Palermo città e al mare, come sarà?
«Di un genere mai affrontato prima. Ma non posso parlarne».
Io, però, so che si svolge in 24 ore, dal mattino al mattino successivo, ed è un viaggio in cui accade di tutto. Un film con una storia d’amore, tanti giovani e una rapina...
«Diciamo amore, sesso, rock’n’roll e altro. Un pulp alla Muccino. E la mafia non c’entra niente. Si tratta di un lavoro profondamente mediterraneo nell’energia che vuole emanare e non è sulla delinquenza».
Lo gira in inglese, vero?
«Sì. La protagonista è una giovane turista americana che arriva a Palermo per le vacanze».
Si tratta dell’attrice americana Elena Kampouris, 25 anni, già vista in
"Jupiter Legacy” e “Il mio grosso grasso matrimonio greco 2” (ci sarà anche nel terzo): conferma?
«Sì, ma come lo sa (
ci saranno anche gli italiani Lorenzo Richelmy, Saul Nanni, Enrico Inserra, ndr)? Il titolo? Ancora non c’è».
Per caso l’America alla fine le è rimasta un po’ qui?
«No. L’ho digerita, anche se è stato faticosissimo uscire da certe logiche professionali e umane. A prescindere dalla mia esperienza, è lo stile di vita americano a essere tossico. Da noi, anche quando va tutto male, si vive molto meglio».
Cosa abbiamo noi che loro non avranno mai?
«La grande capacità di adattamento davanti alle difficoltà, la voglia di vivere con gioia, la ricerca del piacere. E poi la nostra rete sociale è forte, da noi non si cade come da loro. Lì passi da un lavoro prestigioso alla strada come se niente fosse. È una società crudele e cinica».
Nel 2007 con il suo primo film a Hollywood, “La ricerca della felicità”, Will Smith ha avuto la candidatura all’Oscar come Migliore attore protagonista: ci pensa mai alla statuetta? «No. Se lo fai non arriverà mai».
Per lei sarebbe la quadratura del cerchio.
«Sì, ma l’Academy oggi vuole essere politically correct e dare spazio solo a storie dagli angoli smussati. Che non lasceranno alcun segno. Non fa per me».
Da sempre dice – coraggiosamente – che il politically correct è la tomba dell’arte, e non si fa pregare per dire quello che pensa (memorabili i giudizi negativi sul cinema di Pasolini e i fratelli D’Innocenzo): ora cosa non le piace?
«Ma niente, figuriamoci...».
Allora c’è qualcosa che l’entusiasma del cinema italiano?
«Non mi entusiasmo facilmente. In passato mi è successo, ora no. Ma spero si ripeta presto».
A Hollywood passava per “un autore di film femminili": cosa volevano dire realmente?
«Per gli americani quando parli di relazioni umane fai qualcosa per le donne, per gli uomini invece si fanno film d’azione. A me sembra una scemenza. Le mie storie sono per tutti».
Ha detto di temere i venditori di fumo: ne ha incontrati più lì o in Italia?
«In America. Lì ci sono tantissimi millantatori che dopo un po’ ti destabilizzano perché non sai mai chi hai di fronte».
Negli Usa ha girato 4 film, 2 di grande successo, ha letto tanti copioni, e qualcun altro stava anche per farlo: a quale è rimasto più legato?
«Forse Replay, scritto da Robert Zemeckis, regista di Ritorno al futuro e Forrest Gump. In pratica un viaggio nel tempo per impedire le cose brutte della vita. Un lavoro mai realizzato perché Ben Affleck si disse interessato... Però non l’ha mai fatto».
Fra quelli non girati anche uno su Ponzio Pilato e altri su Dracula, Mike Tyson e Wolverine: è vero che quest’ultimo le piaceva tanto?
«Sì, raccontava le origini del personaggio. Una bellissima storia, anche se i fumetti sono molto lontani da me».
Non vede suo fratello Silvio, 41 anni, dal 2007: un film sul vostro rapporto naufragato così male lo farà mai?
«Non credo proprio».
Suo figlio Silvio Leonardo, 23 anni, lavora come aiuto regista con lei?
«Sì, ma non solo con me. A Palermo ci sarà anche lui».
Il primo consiglio dato?
«Fare attenzione a tutto. Il cinema è bello ma competitivo e spietato. Ci vogliono piedi ben piantati a terra. E spalle larghe».