il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2023
Reportage da Jenin
A vent’anni dall’invasione del campo profughi di Jenin, la storia sembra ripetersi. Quello di inizio luglio è stato l’attacco più massiccio nell’area, dal 2002: 12 palestinesi e un soldato israeliano hanno perso la vita, circa tremila palestinesi sono stati costretti a lasciare le proprie case. Mille militari dell’esercito israeliano sono entrati nel campo profughi dove sospettavano di trovare “hub di coordinamento e comunicazione tra i terroristi”.
Proprio nei giorni scorsi il presidente palestinese Abu Mazen, dopo 18 anni di assenza, è riapparso qui a Jenin, accolto da una folla inferocita che cantava, per schernirlo, “Battaglione! Battaglione!” (in riferimento al Battaglione di Jenin, un gruppo militante locale che si è rafforzato negli ultimi anni), mentre il suo vice è stato letteralmente cacciato via. Ahmed, il direttore creativo del “Freedom Theatre”, racconta che “vive una doppia oppressione, quella israeliana e quella interna alla propria comunità. L’Autorità palestinese eroga poche migliaia di euro all’anno per l’educazione. Tutto il resto va in sicurezza. Ma quale sicurezza?”, si chiede. “Io credo in una resistenza culturale – prosegue Ahmed – e per questo paghiamo con le nostre vite”. Il suo Teatro della Libertà si trova nel cuore del campo ed è stato fondato nel 2006 da Juliano Kharris, che amava definirsi “al 100% ebreo e al 100% palestinese”.
Da qualche giorno siamo nel campo profughi insieme al famoso regista e attore palestinese Mohammed Bakri, per girare il sequel del suo documentario Jenin Jenin. “Detesto i numeri 2 – spiega il regista – ma l’indifferenza non è una alternativa”. Jenin Jenin uscì nel 2002. Incontriamo i bambini di allora, che oggi hanno poco più di vent’anni. Osaid, paramedico e combattente, ferito alla gamba mentre guidava un’ambulanza durante l’ultima incursione, ci confida in lacrime: “L’Autorità palestinese non ci difende. Se non proteggo io la mia gente, chi altro dovrebbe farlo?”. Osaid, 23 anni, non ha mai lasciato il campo e il suo desiderio più grande è quello di vedere il mare.
Ci raggiunge il giornalista di Al Jazeera, Ali Al-Samoud. Conosce ogni anima che attraversa il campo profughi, e porta sul petto una spilla con il volto di Shireen Abu Akleh, la collega che l’anno scorso è rimasta uccisa dopo essere stata colpita da spari alla testa durante un raid dell’esercito israeliano. La foto che ritrae Ali, anche lui ferito allora, con Shireen tra le braccia in fin di vita, ha fatto il giro del mondo. “Sono anni che aspettiamo l’intervento della comunità internazionale. Siamo stati lasciati soli e quindi dobbiamo difenderci”.
Il protagonista che apriva il film di Bakri oggi ha cinquanta anni. Abou è sordomuto e lo incontriamo a casa, una casa che si è trasformata in un mausoleo: suo figlio è stato ammazzato dall’esercito israeliano nel 2021. Le sue mani disegnano la forma di una pistola e la sua voce emette suoni di spari, mentre insieme alla moglie, ci racconta il giorno in cui suo figlio è stato strappato alla vita.
Di fronte a noi immagini di distruzione e pianto. Ma nel sorriso di Hana, 8 anni, seduta nella sua cameretta, ora ridotta a cumulo di macerie, si intravede spazio per la speranza. “Da quando hanno distrutto la nostra casa, mia sorella maggiore non vuole più tornare. Ma noi non ci arrendiamo. Hanno distrutto tutto, ma noi lo ricostruiremo”.
Nel frattempo, continua il processo di evacuazione forzata delle famiglie palestinesi dalle loro case a Gerusalemme Est. Come la criminalizzazione degli attivisti israeliani contro l’occupazione, attraverso arresti e punizioni collettive. Lo stesso vale per le demolizioni di scuole e case nel sud di Hebron. All’orizzonte non sembrano esserci proposte concrete da parte della comunità internazionale, se non l’obsoleta e ormai vuota frase: “Due popoli, due stati”.