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 2023  luglio 15 Sabato calendario

Viaggio nel cuore di Fukushima dove la paura sarà lunga 30 anni


Mentre ci si prepara per visitare la centrale nucleare di Fukushima Daiichi, all’hotel di Futaba dove alloggiamo, un cartello avvisa che alcuni prodotti serviti a colazione provengono dalla prefettura di Fukushima. «Lo facciamo per aiutare gli agricoltori e i pescatori della zona, ma anche per far capire ai nostri clienti che non devono temere di essere “avvelenati” dalle radiazioni» spiega una delle cameriere. «Comunque – prosegue – si può approfittare anche di ingredienti che giungono dall’Hokkaido». Una comitiva di turisti, venuti nella zona per visitare le zone colpite dallo tsunami del 2011, inizialmente tituba davanti al buffet, ma poi, anche loro, decidono di non lasciarsi suggestionare dalle “chiacchiere” sulla contaminazione radioattiva e approfittano del cibo locale.
La notizia, già annunciata nel 2016, ma confermata in questi giorni, dell’imminente sversamento delle acque contaminate da trizio nelle coste antistanti la centrale, ha allarmato la popolazione, ma soprattutto i pescatori. Eppure in un vicino ristorantino di Haragama, proprietà di una famiglia di pescatori da generazioni, offrono sushimi: «Rivediamo l’incubo del 2011 quando molti di noi hanno dovuto chiudere l’attività perché i clienti avevano paura a consumare il nostro pescato» aveva confidato il capofamiglia. Al mercato del pesce di Hisanohama il responsabile della cooperativa di pescatori locale afferma che tutti «sanno che i prodotti non sono contaminati e non lo saranno neppure con lo scarico delle acque, ma l’allarmismo generato dalla stampa, soprattutto internazionale, ci rende una pessima pubblicità e già sappiamo che i nostri compratori inizieranno a guardare altrove per le loro forniture». Il rilascio delle acque “triziate” (che contengono che contengono trizio. un isotopo dell’idrogeno) rischia di vanificare gli sforzi di comunicazione svolti dalle cooperative per attestare la qualità e la sicurezza dei prodotti ittici. «Abbiamo paura che non servirà a nulla anche mostrare che per ogni pescato viene fatto uno screening della radioattività» lamenta Norio Komiyama mentre mostra l’analisi dei radionuclidi dell’ultimo test svolto. Ad oggi tutti i campioni esaminati (nel solo 2022 ne sono fatti svariate migliaia) hanno mostrato livelli di radioattività inferiori a 9-20 Bq/kg (il limite massimo consentito dalla legislazione giapponese è di 100 Bq/kg, ben inferiore ai 1.250 Bq/kg fissati dall’Unione Europea). Entriamo nell’impianto accolti da Naoto Iizuka, capo della Commissione per la decontaminazione e la decommissione della Centrale di Fukushima Daiichi, il quale informa che il 95% del sito della centrale può essere visitato indossando abiti normali e proteggendo le vie respiratorie solo con una mascherina Ffp2 e Ffp3 rendendo fisicamente meno impegnativo e psicologicamente meno stressante il lavoro di migliaia di lavoratori delle decine aziende appaltatrici che ogni giorno lavorano in centrale.
La zona più contestata oggi è sicuramente quella dove sorgono i 1.066 contenitori che raccolgono 1,32 milioni di metri cubi di acqua contaminata dal trizio.
Nel 2013 il governo di Shinzo Abe iniziò a contattare istituti di ricerca, università, laboratori indipendenti per dare un parere su come smaltire le acque che, dopo aver raffreddato i reattori fusi ed essere state a contatto con il corium radioattivo, venivano raccolte in contenitori. Il trattamento Alps (Advanced Liquid Processing System) dopo aver filtrato efficacemente 62 elementi radioattivi, non riuscita a trattenere il trizio, che rimaneva quindi nelle acque. Pochi giorni fa, il governo di Fumio Kishida, già in difficoltà per la crisi economica e per le scelte di drastici tagli alle spese sociali, ha annunciato che lo sversamento delle acque nell’Oceano Pacifico avverrà, come previsto, alla fine dell’estate. Immediatamente una nuvola di polemiche all’interno della nazione ha investito sia il primo ministro sia l’industria nucleare, accusata di aver influenzato la decisione per tornaconto personale. L’operazione, però, secondo l’ Aiea (l’Agenzia atomica internazionale) e molti istituti oceanografici (Norvegia, Canada, Stati Uniti), non comporterà sensibili alterazioni all’ambiente e alla fauna ittica.
L’acqua “triziata” sarà diluita cento volte prima di essere convogliata in un tunnel che la rilascerà a circa un chilometro dalla costa. Secondo i calcoli degli istituti oceanografici, le acque immediatamente antistanti il rilascio non supereranno i limiti legislativi giapponesi che oggi sono già più di 10 volte inferiori rispetto a quelli dell’Unione Europea. L’intero intervento durerà poco più di trent’anni (proprio per evitare una concentrazione di trizio) durante i quali le acque antistanti le coste della centrale verranno campionate e analizzate da circa 200 laboratori facenti parte del circuito Almera, gestito dall’Aiea e da altri laboratori oceanografici.
Proprio questo lungo lasso di tempo ha indotto Greenpeace a contestare la decisione di Tokyo: avendo il trizio un’emivita (durata della concentrazione, ndr) di 12,5 anni, se le acque fossero state conservate sino al 2050, la radioattività sarebbe diminuita a tal punto da poter permettere lo sversamento in solo un paio d’anni. Le polemiche hanno attraversato anche l’Oceano in un periodo di particolare tensione tra il Giappone e i suoi vicini. Preoccupazioni sono state espresse dal Pacific Island Forum, di cui sono membri anche Australia, Nuova Zelanda e Papua Nuova Guinea, ma soprattutto da Taiwan, Cina e le due Coree.
L’occasione è però ghiotta specialmente per Corea del Sud, Cina e Taiwan, i cui governi hanno contenziosi storici e territoriali con il Giappone e le cui flotte pescherecce hanno spesso avuto contrasti con la marina imperiale. È però anche vero che tutti questi Paesi hanno essi stessi centrali nucleari lungo la costa che rilasciano trizio e ogni reattore Pwr (Taiwan ne ha 2, la Corea 25 e la Cina 55) rilascia in media 0,027 PBq di trizio ogni anno, la stessa quantità che verrà rilasciata dallo sversamento delle acque giapponesi (pari a 0,022 Bq/anno). Il trizio è quindi un casus belli politico più che ambientale che le diplomazie asiatiche cercano di portare a loro vantaggio. Come le paure