https://www.esquire.com/it/cultura/libri/a44516886/insostenibile-leggerezza-essere-milan-kundera/, 14 luglio 2023
Sull’insostenibile leggerezza dell’essere
Era il 2002 quando Roberto Calasso di Adelphi, in un’intervista al Corriere della Sera, ricordava che “L’insostenibile leggerezza dell’essere è stato uno dei più grandi successi editoriali degli ultimi cinquant’anni, sullo stesso piano di Cent’anni di solitudine di García Márquez. In Italia il successo fu ancor più clamoroso che altrove. Partimmo con una tiratura prudente di 10mila copie, perché l’autore era ancora un’entità molto vaga per il pubblico italiano”. L’allusione era ai romanzi e racconti pubblicati da Mondadori e Bompiani tra il 1969 e il 1980, poi diventati classici kunderiani anche per il pubblico italiano. “Per mesi abbiamo fatto fatica a tenere dietro alle ristampe. In un anno si vendettero 225mila copie. A oggi il venduto totale è di circa un milione di copie”. Calasso diede poi a Cesare quello che si sapeva da tempo fosse di Cesare: “La cosa diventò anche un fenomeno mediatico, per la coincidenza con la trasmissione del momento, Quelli della notte di Arbore, dove la formula magica del titolo di Kundera veniva usata da Roberto D’Agostino come tormentone”.
Giunto oggi alla 26° edizione, L’insostenibile leggerezza dell’essere dell’allora 56enne cecoslovacco Milan Kundera uscì a marzo 1985 e in breve tempo divenne uno dei libri più venduti dell’estate. Tanto per dire, l’estate che portò via prematuramente Italo Calvino. Il giornalista Alberto Riva in Ultima estate a Roccamare (Neri Pozza), racconta in quale catino editoriale si affacciò il caso Kundera: “Ad agosto aveva superato le 90mila copie, primo nella classifica della letteratura straniera, davanti a bestselleristi navigati come Wilbur Smith (Un’aquila nel cielo) e a Sidney Sheldon (Se domani verrà). Gareggiava anche con i grossi autori nostrani: in cima alla classifica, oltre al Moravia de L’uomo che guarda, c’era Carlo Sgorlon, fresco di Premio Strega con L’armata dei fiumi perduti, autore completamente dimenticato eppure vendutissimo. Giulio Andreotti, ministro degli Esteri, dominava la classifica della saggistica con il terzo volume di Visti da vicino, tallonato da La prevalenza del cretino di Fruttero & Lucentini, che aveva superato le 60mila copie”. In cima alla classifica della varia c’era Renzo Arbore con la versione cartacea di Quelli della notte (Mondadori), il più classico degli instant book.
D’Agostino aveva intercettato subito la fortuna del libro di Kundera. Già il titolo prestava il fianco a essere equivocato ed evocato come mattone da dissacrare. Quelli della notte andò in onda su Rai 2 tra aprile e giugno del 1985, in seconda serata, ore 23 circa. Una trentina di puntate diventate leggenda, database nazionalpopolare di battute e personaggi, uno dei successi più grandi e seminali di Renzo Arbore. Un salotto affollato, una commedia casalinga, tanta scrittura, molta improvvisazione, un capocomico e la sua truppa di freak, “una felice band di comprimari con gavetta alle spalle e con carriera futura ma nessuno da primadonna, a conferma che Arbore ha tanti figli e nessun nipote”, riassume Eddy Anselmi, autore tv ed esperto di costume raggiunto al telefono da Esquire. Si dissacrava la televisione seriosa e la cultura alta: i due dilettanti dispensatori di buon senso, Massimo Catalano e Riccardo Pazzaglia, facevano a gara nel prendere in giro i grandi saggi con sassate di ovvietà rimaste nell’immaginario.
Del salotto fa parte anche Roberto D’Agostino, all’epoca ex impiegato di banca in caciarona fuga dal cartellino, critico musicale, penna di costume (si dice ancora così?), un Arbasino autodidatta, una versione nottambula e festaiola di Irene Brin, insomma pre-fondazione Dagospia (lontanissima e inimmaginabile), autoproclamatosi lookologo degli smodati anni Ottanta, in cerca di vecchie faune travestite da nuove tribù, piene di velleità edonistiche ed effetti speciali, l’apparire come unico miraggio possibile, “l’edonismo reaganiano” come fototessera e passepartout di un decennio. L’instant book Look Parade (Sperling, novembre 1985) sembra un gioco da antropologo dandy in mezzo a Paninari, Yuppies, Rambo, Eccentrici e Inautentici, in mezzo al riflusso, la frivolezza, il consumismo, il disimpegno, il fastidio per l’aria da caserma militante degli anni Settanta. Prelude invece ai brillanti sciocchezzai postmoderni di battute, idee, opinioni carpite ovunque sui media: Il peggio di Novella 2000 (con Renzo Arbore, Rizzoli), il rarissimo Libidine (Mondadori), Come vivere e bene senza i comunisti (Mondadori), Chi è, Chi non è, Chi si crede di essere (Mondadori), L’insostenibile pesantezza del Sublime (Mondadori), Sbucciando piselli (con Federico Zeri, Mondadori).
D’Agostino aveva intercettato subito la fortuna del libro di Kundera. Copertina chiara, quel pantone Adelphi che cambia sfumatura col tempo, come i colori dei dipinti italiani nei manuali d’arte, solita eleganza con Les Pléiades di Max Ernst in bella mostra, un nudo forse non instagrammabile oggi. Lo citava a proposito e a sproposito, chiamandolo in causa per introdurre gli argomenti più vari. Già il titolo del libro, un ossimoro sontuoso ma “paraculo” (avrebbe detto Diamante Covelli), lungo ma definitivo, prestava il fianco a essere equivocato ed evocato come mattone da dissacrare. Come non approfittarne? Lo stesso gioco non si sarebbe potuto fare con un altro bestseller (accusato anch’esso di aver venduto troppo): Il nome della rosa di Eco, uscito nel 1980 e rilanciato nel 1986, era un titolo innocuo. Però D’Agostino il romanzo lo aveva letto e preso sul serio, per questo provava a renderlo pop, giocando tra alto e basso, mentre la strofa di Venditti, “Non leggi manco La Repubblica, non ti solleva Milan Kundera” lo popolarizzava e basta.
Ecco dunque l’arringa per Kundera, depositata nel “vizionario dei nomi famosi” di Chi è, chi non è, chi si crede d’essere: «Siamo tutti Milanisti. Se lo merita, non solo per le rapinose trame che tesse nei suoi romanzi, quanto perché quello Spirito del Tempo che lo scrittore cecoslovacco ha battezzato L’insostenibile leggerezza dell’essere spiega bene questi anni senza deposito, né ideologico né morale, che sono gli ’80. Fornito di un oculato volto da zingaro triste, con quella piega amara, ma così amara che sembra un Fernet, Milan Kundera, spretatosi di comunismo ceco e tirannico, sistematosi dal 1975 a Parigi (è cittadino francese grazie all’intervento del presidente Mitterrand), con il suo celebre romanzo filosofico ha scritto un epitaffio a un decennio ingorgato da valori in via di risucchio e soffocato dalla pesantezza dell’anima. Come pesa l’anima, quando si è sempre più attratti dalla leggerezza e dalla futilità di cui è intrecciata la nostra vita». E ancora: «Senza entrare nel merito delle ideologie svuotate (marxismo, maoismo, terzomondismo) e delle virtù appassite (l’amore, la bellezza, la saggezza), il libro dell’esule praghese ripropone il solito dilemma: che senso ha la nostra vita? Essere o Benessere? Parmenide o Parmalat? Enervit o Eraclito? “Ah, saperlo!” direbbe Riccardo Pazzaglia. Di fronte alle cazzatine e pirlate che prendono il posto dei bisogni assoluti, Kundera, l’unico Milan che Berlusconi non comprerà mai, si confessa così nel libro: “L’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato”».
Con lui muore uno degli ultimi dinosauri di una civiltà letteraria alta, scomparsa da tempo, in cui credere alla letteratura corrispondeva al credere di essere parte di una civiltà culturale che teneva in considerazione i grandi scrittori. Il libro di Kundera era tutto tranne che un mattone, anzi, era appassionante: romanzo di formazione e di illusioni perdute, di amore e perdizione, di Sessantotto e Praga, di esilio e fuga. Stefano Gallerani, scrittore e critico letterario del Mattino, spiega a Esquire: «Il successo di questo libro, un romanzo che è diventato perfino solo un modo di dire, diede a Kundera una collocazione e una statura intellettuale in decenni in cui i campi erano netti e gli scrittori che entravano nel Pantheon erano indiscussi e incarnavano la figura dello Scrittore: David Grossman, Auster, Yehoshua, Saramago. Con lui muore uno degli ultimi dinosauri di una civiltà letteraria alta, scomparsa da tempo, diversa da oggi, in cui credere alla letteratura corrispondeva al credere di essere parte di una civiltà culturale che teneva in considerazione i grandi scrittori. Non a caso Kundera ha scritto libri sui libri altrui. Perché aveva il senso della genealogia letteraria. Non solo ambire a far parte di qualcosa, ma sapere che quel qualcosa c’era prima di te. La civiltà letteraria non solo come modello, ma come senso di responsabilità. Incarnò l’intellettuale che ha sempre ragione: la vicenda umana, politica, la carriera, la scelta di Parigi, il cambio di lingua. Una dimensione che può rivelarsi anche un boomerang. Fuori dai radar da tempo, è risorto nel giorno della sua morte».
Fuori dai radar da tempo, Milan Kundera è risorto nel giorno della sua morte. Per anni il successo del libro di Kundera è stato preso come case study in negativo. Le posizioni del dibattito erano manichee: se piace al grande pubblico non è un buon libro, se piace attraverso i media popolari non è un giusto successo. A maggior ragione se si parla di un grande autore. Per Giovanni Raboni era lesa maestà: «Dopo aver ignorato i libri più belli di Kundera, l’Italia l’ha scoperto e innalzato agli onori delle alte tirature e delle celebrità televisive con L’insostenibile leggerezza dell’essere, che segna la sua resa definitiva alla confezione di lusso, all’esibizione del paradosso, allo smercio dell’intelligenza in pillole». Grazia Cherchi era realista: «Non accetto di entrare nel partito anti-Kundera. Anche lui ha dovuto fare una lunga anticamera per arrivare al successo e i suoi precedenti romanzi, non inferiori all’ultimo osannato, continuavano a cambiare editore perché non li voleva nessuno, sono tornati solo l’anno scorso in libreria, rispolverati dai magazzini».
Nella Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio), Gian Arturo Ferrari ha ricordato il precedente in tema di bestseller e televisione italiana, il libro Così parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo, romanzo Mondadori del 1977, a cui diede una mano decisiva la presenza dello stesso autore nel talk show Bontà loro di Maurizio Costanzo su Rai 1. Per altre latitudini editoriali, però, anche De Crescenzo soffrì la diffidenza e lo scetticismo verso il suo successo. C’era insomma chi vedeva l’apocalisse e i barbari alle porte, in anni in cui il sistema editoriale era granitico, milionario, i suoi protagonisti venerati e autorevoli, i lettori forti erano veramente forti e tanti. Nel 1989, sul Messaggero, Giorgio Manganelli, tra i più liberali e illuminati uomini delle patrie lettere, relativizzava la faccenda Kundera ma non vedeva lontano: «Un amico mi dice che una recensione favorevole di Geno Pampaloni fa subito vendere qualche centinaia di copie, nella sola Milano: questa è la misura autentica dell’efficacia di una buona recensione: agisce sui libri che aspirano a tirature non oltre le diecimila copie; se va oltre, le recensioni non c’entrano; magari c’entrano i premi, sempre meno, e qualche battuta televisiva. La televisione non si rivolge in primo luogo ai lettori». Tra le accuse di calcolo editoriale, «troppo ricercato e zuccherino» (Ruggero Guarini), «il messaggio del libro è programmato a tavolino, perde anima e si neutralizza» (Asor Rosa), si infilò barricadero anche Aldo Busi che aveva esordito clamorosamente con Adelphi l’anno prima: «Pessoa, Yourcenar, Eco, Kundera, appartengono a quell’inconsistenza di buon tono su cui l’editoria ha fondato un impero per catturare gli ansiosi di non sfigurare in materia di Destino & Arredocasa». Questi e altri giudizi critici sono inclusi da D’Agostino nella voce Kundera del suo Chi è, Chi non è, Chi si crede di essere.
E pensare che c’era un altro editore che lo avrebbe pubblicato di corsa. Un retroscena nel retroscena delle fortune kunderiane lo ha raccontato Paolo Di Stefano in Potresti anche dirmi grazie (Rizzoli). Sandro Ferri di E/O, oggi casa editrice di Elena Ferrante, ieri punto di riferimento per autori dell’Est, era in contatto con Kundera per i diritti: «Ci teneva al corrente dello sviluppo del libro. Diceva: Vediamo, forse”. Ma si capiva che sua moglie non voleva, ci considerava troppo piccoli. E quando il libro è andato all’Adelphi ci siamo offesi. L’abbiamo considerato un tradimento».