Corriere della Sera, 14 luglio 2023
Chiude la Anchor, il birrificio artigianale più antico d’America
Nata durante la corsa all’oro dell’Ottocento, sopravvissuta al proibizionismo ma non all’acquisizione dei giapponesi
Il birrificio Anchor di San Francisco, nato durante la corsa all’oro ottocentesca, era sopravvissuto al grande incendio che distrusse la città nel 1906, al proibizionismo, alla Grande Depressione, a due guerre mondiali, al Vietnam, accompagnando la California e l’America attraverso tre secoli. Era la pioniera delle birre artigianali – craft beer – molto copiata dagli altri in tempi recenti perché lontanissima dalla produzione industriale di massa che caratterizza il mercato (non solo americano). Era venduta soprattutto in bar e ristoranti (scorrendo la lista delle birre di un locale, i connoisseur si rassicuravano vendendone il nome) e molto più difficile da trovare nei supermarket, pochi e selezionatissimi.
Ora la Anchor chiude, cancellata da un’America nuova, quella dei fondi d’investimento e delle acquisizioni dei megagruppi globali: niente più Anchor Beer, piccolo laboratorio di innovazione (negli anni ’60 lanciarono una pale ale, decenni prima che diventasse un fenomeno di massa). I mastri birrai e gli altri dipendenti (61 in tutto) hanno ricevuto l’altroieri un preavviso di 60 giorni. «Anchor era una parte essenziale della scena gastronomica, culturale e sociale di San Francisco: è un momento straziante», ha dichiarato Sam Singer, portavoce dell’azienda fondata nel 1896 che si autodefinisce «il primo birrificio artigianale d’America».
Il triplice problema che l’azienda non è riuscita a superare? Il primo è ovviamente la pandemia. Ha chiuso bar e ristoranti – le chiusure californiane, anche se non paragonabili alla severità delle misure italiane, sono state più lunghe e severe che nella maggior parte degli altri Stati dell’Unione – che erano i clienti più importanti di Anchor.
Il secondo problema: la catena di approvvigionamento, l’inflazione, i dazi sull’alluminio, le scappatoie fiscali concesse ai prodotti superalcolici ma non a vinai e birrai che rendono sempre più precario il mercato per le piccole realtà produttive d’America.
Terzo e ultimo problema: nel 2010 Anchor è stata venduta a un fondo, e nel 2017 alla giapponese Sapporo che ha cercato due anni fa di rianimare le vendite con un rebranding finito malissimo, che ha confuso i clienti storici e non ne ha conquistati di nuovi. E la recente scelta di cancellare la distribuzione al di fuori della California era parsa il preludio alla chiusura.
Al di là del caso specifico di Anchor, viene da pensare che ancora una volta piccoli marchi storici di alta qualità e straordinario heritage si dimostrano incompatibili con le esigenze dei grandi gruppi multinazionali basati sulla crescita continua, possibilmente esponenziale, per rendere conto agli azionisti. Ma Anchor non era un bond, era una strana fabbrica che ogni anno sfornava una diversa Christmas Ale stagionale per l’inverno, con l’etichetta ad hoc sorprendente come il suo gusto.
Jack London racconta nelle «memorie alcoliche» del libro John Barleycorn che da ragazzo, a San Francisco, verso la fine dell’Ottocento, lavorava in una sala da bowling e ogni sera il suo capo offriva ai «boys» una birra. Una birra popolare, molto meno cara del ginger ale che in confronto era una bibita «di lusso»: la «steam beer» nata durante la corsa all’oro californiana, una birra autoctona americana diversa dalle altre, quelle con le lavorazioni tedesche e inglesi, per necessità. Era un processo di lavorazione ibrido, con lieviti da bassa fermentazione e il mosto caldo raffreddato in vasche poste all’ultimo piano dei birrifici che emanava grandi quantità di vapore – «steam» – nella brezza di San Francisco.
È anche per questo che la steam beer della Anchor è stata per tre secoli un piccolo gioiello di pragmatismo americano, e una grande testimone della gloriosa conquista del West, in questo 2023 degli algoritmi senza più frontiere da esplorare.