la Repubblica, 14 luglio 2023
L’archivio di Scalfari
In quel formidabile inventario di giornalismo che è l’archivio di Eugenio Scalfari, ne ritroviamo la voce a un anno dalla scomparsa. E ci sembra di sentire la sua intonazione solenne quando, in qualità di direttore di Repubblica,decide di impartire “una nota di censura professionale” all’autore dell’editoriale, ossia a sé medesimo. Per chi non fosse passato per piazza Indipendenza a quei tempi, la “nota di censura professionale” era l’equivalente della “lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne, un marchio disciplinare temuto dai giornalisti insieme al cono d’ombra che si abbatteva inesorabilmente sui loro destini. Siamo nel giugno del 1985, in Italia s’è appena tenuto il referendum abrogativo sui tagli della scala mobile, vinto da Craxi e perso da Berlinguer. Il direttore rilegge il suo commento uscito quella mattina e lo trova inutilmente emotivo. «Il mio fondo tradisce una passionalità di giudizio che avrebbe dovuto essere più trattenuta», si autodenuncia in una lettera al vicedirettore Gianni Rocca e al caporedattore Franco Magagnini. «È un errore che merita censura professionale che ritengo doveroso impartirmi». Per conoscenza, la missiva viene spedita anche al direttore generale Andrea Piana.L’autocondanna del direttore è solo uno dei tanti documenti che raccontano una personalità d’eccezione, il direttore rivoluzionario morto nel giorno consacrato alla madre di tutte le rivoluzioni. Lettere, ordini di servizi, biglietti, note interne, telegrammi, perfino il menu con le notizie del giorno da lui ribattezzato non con modesto senso di sé “messale”, attraverso i quali è possibile ripercorrere l’avventura diRepubblica, la sua trasformazione da nave pirata ad ammiraglia dell’informazione. Ed è possibile riconoscere il particolare stile del suo timoniere, la scuola professionale e morale, le rotte tracciate con lucidità fin dal principio del viaggio.Da un faldone spunta un documento prezioso, il manifesto fondativo del giornale, poche righe che sfidano i marosi della storia: «La linea diRepubblica è laica e antifascista». E ancora: «Nel pieno rispetto della verità dei fatti e della completezza dell’informazione, il giornale dovrà battersi contro ogni degenerazione del sistema politico ed economico, contro ogni tentativo di prevaricazione da parte del potere economico e politico, a favore di una corretta gestione della cosa pubblica, di una maggiore efficienza delle strutture e servizi dello Stato, di una maggiore giustizia fiscale e sociale, e in difesa dei diritti civili». L’accettazione di questo impegno era vincolante per l’assunzione. Si doveva scegliere da che parte stare. E solo dichiarandolo apertamente al lettore si faceva un’informazione corretta.Direttore, editore, regista politico, mente culturale, supervisore dei bilanci, ideatore delle campagne pubblicitarie, dominus della tipografia, all’occorrenza anche psicoanalista, sedatore di risse, curatore di anime. Non c’è aspetto del giornale – pratico organizzativo o politico-intellettuale – che sfugga al suo controllo. Esercitato sempre alla sua maniera, sentimentale prima ancorache pragmatica, mai burocratica, quasi famigliare, senza distinzione di toni sia che si rivolgesse alla “canaglia” – a chi remava nei piani bassi – ai cosiddetti “senatori” o ai parigrado per carica e prestigio. I suoi ordini di servizio compongono un manuale di giornalismo esemplare, da distribuire nelle redazioni. Come si scrive il cappello di un articolo. Come si passa un pezzo. Come si fa un’inchiesta sulla storia, bandite le domande fumose e soprattutto la noia. Come si fa un titolo, preciso e attraente. E anche come si sta in redazione, dettaglio non secondario. «Sarebbe forse superfluo ricordarlo», scrive il 4 agosto del 1977, «ma sottolineo che il lavoro dei colleghi di qualsiasi servizio (impiegati, contabili, segreterie) è un lavoro che si colloca al medesimo livello del vostro. Invito tutti a tenere presente queste elementari regole di convivenza». Severo con i giornalisti, quasi incredulo davanti a sciatteria e refusi, è pronto a immolarsi per difenderli da qualsiasi pericolo esterno. Il 23 aprile del 1983 un sottufficiale della procura di Roma presenta una citazione in giudizio per due capiredattori, ritenuti colpevoli di un articolo non firmato. Ma come è possibile? «Il direttore responsabile sono io», scrive Scalfari al sostituto procuratore. «La citazione modifica una disposizione legislativa e quindi mi permetto di contestarla energicamente». La sciabola è sguainata.Con i potenti il tono non diventamai mellifluo, piuttosto spavaldo, se occorre anche provocatorio. «Scusami caro Guido se uso con te un linguaggio viziato da troppo orgoglio», scrive a Carli nel novembre del 1975, «ma con Spaventa o senza Spaventa, e perfino con Carli o senza Carli, la mia strada la farò egualmente». Cerca di convincere l’ex governatore della Banca di Italia a salire sul vascello diRepubblica, prossimo alla partenza («ci proponiamo di trasformare profondamente il modo di fare giornalismo in Italia», abbandonando «la via delle doppiezze dei giornali che sostengono una tesi in una pagina e la tesi opposta nell’altra») e vorrebbe con sé anche l’economista Luigi Spaventa che scrive per ilCorriere, ma Carli fa resistenza. Entrambi poi sarebbero saliti a bordo, ma al momento del rifiuto il direttore non si perde d’animo: con il Governatore o senza, andrà avanti in quella che definisce «la guerra più divertente della mia vita». La guerra alCorriere della Sera è il chiodo fisso, quasi un’ossessione, finché non la vince alla metà degli anni Ottanta, sull’onda dello scandalo P2-Rizzoli. «Novecentomila copie vendute» segna nel 1987 il bollettino di piazza Indipendenza, destinato a crescere nella stagione successiva. È questo il grande successo civile oltre che editoriale di Scalfari: rendere maggioritaria un’opinione politica e intellettuale rimasta sempre minoritaria. Ma sulla tolda della sua imbarcazione il timoniere non cessa di avvistare i pericoli, anche da notevole distanza.Primavera del 1985. Siamo ancora lontani dalla guerra di Segrate e dal rischio poi sventato del passaggio diRepubblica ed Espresso nelle mani di “Berlusconi-Mackie Messer”. Ma grazie alla protezione di Bettino Craxi – e all’assenza di leggi che regolano l’universo televisivo – il padrone della Fininvest è già Sua Emittenza, il nome iscritto nelle liste della P2. Alla fine di maggio Scalfari viene a sapere che un uomo di Berlusconi è stato ammesso nel consiglio d’amministrazione della società editoriale da cui dipende Repubblica. Non ci pensa due volte. «Caro Mario», scrive subito al presidente Formenton, «mi considero dimissionario». Il giorno successivo l’incidente appare risolto. «Ho solo da dirti grazie e abbracciarti di cuore», si legge nel telegramma mandato a Formenton.Ciò che distingue i bananieri dagli imprenditori veri, scriverà nel 1990 al momento dell’approvazione della legge Mammì-Craxi-Andreotti, «è che i secondi fanno gli affari misurandosi con il mercato e le sue regole, i primi utilizzando i padrinaggi politici per piegare il mercato ai loro interessi. Berlusconi è un bananiere a cento carati, cioè un uomo d’affari che fa affari con la politica». Poi con i suoi affari farà anche la politica ovvero si pagherà un partito personale, ma questa per Scalfari sarà un’altra battaglia, purtroppo persa.Irriducibile con “la razza padrona”, ossia con il capitalismo avventuriero tra politica e malaffare, il fondatore di Repubblica punta con orgoglio sulla borghesia illuminata e riformista, «minoritaria e irresistibile insieme». Nel dicembre del1984 Piero Ottone, il direttore che aveva spettinato il Corriere e ora consigliere della società che editaRepubblica, gli esprime disappunto per l’attacco al re della finanza Enrico Cuccia e alle grandi famiglie dell’establishment italiano: potrebbero venirne danno per l’editore e per il giornale che si condanna alla solitudine. «Proprio soli non siamo», è la sua replica ferma. «Sulla nostra stessa posizione ci sono personalità come Visentini, Spaventa, Sylos Labini, Ruffolo, Andreatta (di De Benedetti non parlo perché è in qualche modo parte in causa)…. Ma quand’anche? Le migliori battaglie le abbiamo fatte in solitudine». Poiin cauda venenum. «Post scriptum: tra mezz’ora sono a colazione con Cuccia. Come vedi mantengo i rapporti». Ispirato da Pessoa, a Scalfari piace paragonare la sua anima a un’orchestra disordinata nella quale diversi strumenti suonano contemporaneamente, corde, arpe, timpani e tamburi. Di questa musica interiore le carte dell’archivio restituiscono armonie e contrappunti. Da un faldone rosso escono fuori le lettere scambiate negli ultimi dieci anni con papa Francesco. «Carissima Santità, lei sa quanto io le sia affezionato», gli scrive nell’aprile del 2022,pochi mesi prima di spegnersi. «Le ricordo che il mio ultimo pensiero prima di addormentarmi è per lei, e continuerà a essere così finché vivrò». È l’ultimo tratto della sua vita vegliarda, il corpo è stanco, la voce più debole. Le battaglie di conquista sono alle spalle. Quella con Francesco ha i tratti di un’amicizia vera, profonda, non priva di accenti scherzosi sull’età che avanza. «Mi capita di ricordare spesso una battuta del Beato Ildefonso Schuster quando così commentava lo scorrere delle sue giornate: “Fare l’arcivescovo di Milano, è un mestieraccio!”», gli scrive il Papa. «E come Vescovo di Roma mi dico con Andrés Segovia: “Si estoy cansado ahora, no me importa, porque tengo la eternitad para descansar”. Se sono stanco ora, non mi importa, perché ho l’eternità per riposare». La chitarra di Segovia, la fratellanza, l’ironia. Il direttore rivoluzionario ha trovato un fratello d’anima nel più rivoluzionario dei papi. Tengo l’eternitad para descansar. Il viaggio è concluso, ma il dialogo con le generazioni future non finisce.