il Giornale, 13 luglio 2023
Kundera a Parigi
C’è il vecchio artigiano, che in rue du Cherche-Midi spiega da sempre ai turisti: «Qui fa caldo da anni, è il respiro di Kundera...». C’è chi usa la sua effigie per vendere poster. E chi racconta fandonie persino sul nome della strada in cui talvolta passeggiava sotto braccio con la moglie Vera, rispolverando una leggenda abbondantemente smentita secondo cui, una volta, in rue du Cherche-Midi c’era una vegetazione così fitta che a mezzogiorno non si vedeva il sole, e che questo dettaglio avesse spinto Milan Kundera a farne la sua preferita. Vaccinato contro le bugie dai tempi del regime comunista da cui fuggì, a Parigi chi lo ha conosciuto da vicino ha sempre detto che il romanziere, delle storie sul suo conto rideva di gusto, anziché soffrirci. Perché aldilà dell’uso un po’ strumentale, quasi mitologico, del suo nome, la Ville Lumière ha accolto l’uomo prima dello scrittore. E la dieta mediatica, dopo i successi, non ha impedito all’expat diventato francese di avere in fondo una vita normale. Rapporti, vicinato, passeggiate, «scazzi». La sua ultima apparizione sul piccolo schermo risale al 1984; l’ultima conversazione autorizzata con un giornalista al 1986. Quel pudore con cui si faceva scudo dalla fama che lo ha inseguito anche negli ultimi anni nel quartiere latino – dove gli habitué del turismo letterario facevano tappa a caccia del fantasma senza neppure sapere della malattia – non va però confuso con lo snobismo intellettuale tipico di certi scrittori d’Oltralpe. Anche perché Kundera, ai residenti del VI° arrondissement capitava davvero di incrociarlo fino a qualche anno fa. Poi è svanito del tutto, continuando per quanto possibile a lavorare dalla casa di Parigi. Nessuna intervista, niente comparsate tv. Silenzio. Uno dei pochi a conservare ricordi (attendibili) della sua riservatissima esistenza è il giornalista e scrittore Philippe Labro. Abitava infatti alla fine dell’impasse Récamier, sulla rive gauche. «Proprio di fronte a Milan, da casa mia vedevo la piccola luce durante la notte, e mi dicevo: Kundera lavora, e tu no!», ha raccontato a Paris Match. Due vicini diventati amici, pur nella discrezione richiesta dall’autore de L’insostenibile leggerezza dell’essere. Quando però Kundera seppe delle intenzioni giornalistiche del vicino di raccontare il suo coté parigino nascosto, gli disse in modo perentorio che non avrebbe acconsentito a un’intervista. Ma un ritratto intimo uscì, nel 2014. E resta un occhio in presa diretta su casa, modus operandi e certe passioni private dello scrittore che da espatriato troncò con la lingua madre, iniziando a scrivere in quella della patria che lo aveva naturalizzato grazie a Mitterrand. Il presidente socialista gli diede la cittadinanza nel 1981, dopo sei anni. «Naso da pugile, mento da ribelle, occhi azzurri, rughe che raccontano meglio di qualsiasi parola le prove dell’esilio». Labro racconta Kundera faccia a faccia. Non spia. E conferma che lo scrittore ceco adottato dalla grandeur con Vera Hrabanková rappresentava la coppia più silenziosa di Parigi. I divoratori di gossip (quasi nessuno su di lui) e i guardoni dell’esistenza altrui si esaltarono nel leggere dell’abitazione di Kundera a pochi passi da Sciences Po. «Libri e dischi in vinile ovunque, testimoni del loro amore per la musica. Il padre del mio vicino si chiamava Ludvík, un grande pianista, allievo di Janácek». Labro svelò che Kundera lasciava la città poco prima dell’uscita di un suo nuovo scritto. Si trattava dell’idea di sparire dietro la propria opera, di non lasciare traccia della sua vita reale, raccontata ieri su Marianne da Benoît Duteurtre, saggista e critico musicale. Lui ha conosciuto Kundera nei primi Anni ’90, quand’era era già «inaccessibile» e si favoleggiava di un’esistenza monastica, e del rifiutò di ogni contatto umano. Da qualcuno, ricorda Duteurtre, fu letto come «un insulto ai valori di un tempo in cui è importante comunicare...». Solo che quest’immagine non rispecchiava il Kundera incontrato: «Era stato così gentile da inviarmi una cartolina illustrata con un dipinto di Fernand Léger, con parole incoraggianti su uno dei miei primi romanzi che non aveva avuto successo. Al nostro primo pranzo in una brasserie parigina, avrei scoperto un uomo caloroso, amichevole (la familiarità sarebbe arrivata presto), attento ai miei lavoretti, generoso, quasi alla ricerca di una forma di cameratismo letterario, poteva chiamare in qualsiasi momento per discutere di ciò che lo interessava. Con Vera e gli amici formavano una specie di famiglia in cui non era facile entrare, ma dentro la quale tutto era semplice, schietto, cordiale, fino alle visite che facevamo loro d’estate, a Le Touquet (la stessa spiaggia dei Macron, ndr), sulla riva a piedi nudi». Il voto di silenzio non ha impedito a Kundera di mescolarsi con l’élite, apprezzare bistrot e buon vino. Più nulla di pubblico dal ’95. Serviva il nettare di Bacco per convincerlo a uscire dalla tana. Nel 2017, accetta infatti il premio Château La Tour Carnet, un inno all’insieme enologia-letteratura. Fedele alla reputazione, restò in silenzio. Scelse invece di parlare davanti a pochi addetti ai lavori una decina d’anni fa, per l’insieme della sua opera nella Biblioteca nazionale di Francia, entrato (in vita) nella collezione Pléiade di Gallimard, insieme a Molière, Proust e Balzac. Uno dei suoi amici, il filosofo Alain Finkielkraut, svelò il suo j’accuse (privato): «Il nostro tempo comincia a mettere in pericolo i libri ed è a causa di questa angoscia che da anni aggiungo ai miei contratti una clausola in base alla quale i miei romanzi si possano leggere solo su carta, non su uno schermo». Nel fiorente mercato dei romanzi in digitale, la cosiddetta clausola Kundera fece scalpore; ultima battaglia del narratore venuto dal freddo che ha riscaldato a suo modo Parigi. Quasi a dire: dimenticatemi, aprite i miei libri.