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 2023  luglio 13 Giovedì calendario

I morte di Milan Kundera

Paolo Di Paolo per Sta
Tagliare il prosciutto. Salire in camera da letto. Parlare. Parlare a lungo. Addormentarsi. Guardare l’ombelico scoperto di una ragazza. Ricevere una lingua nella propria bocca, «come uno straccetto umido». Perdere tempo. Aprire una finestra che dà su un parco. Liberare l’intestino. Gridare facendo l’amore. Guardarsi allo specchio: come fa Tereza nelle prime pagine del romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere; e lo fa non per vanità, ma per la meraviglia di vedere il proprio io.
In ogni pagina di Milan Kundera c’è una sequenza fitta di gesti. Anche o soprattutto insignificanti: d’altra parte, la vita è la «festa dell’insignificanza» carica di significato. Sbadigliare o ridere, grattarsi la testa o truccarsi sono i poveri mezzi che abbiamo per contraddire «l’ineluttabile pesantezza del vivere». Calvino, che aveva capito il romanzo più fortunato del grande scrittore ceco morto ieri a Parigi a 94 anni, ne richiama le pagine nella lezione americana più famosa e fraintesa. Quella, appunto, sulla leggerezza. Negli autoproclamati anni gaudenti, gli ’80, era facile che la leggerezza fosse scambiata per superficialità; e non era difficile che – complici Renzo Arbore e Roberto D’Agostino – il titolo di Kundera, il titolo in sé, diventasse un proverbio. Un tormentone finito perfino in una canzone di Venditti! Ma il romanzo c’entrava poco o quasi niente: il rischio che – nella confezione Adelphi – si riducesse a una caricatura del libro-da-avere, il trofeo midcult negli scaffali di casa, è stato più che sfiorato. Di più: è il caso tipico di un successo imprevedibile che fa ombra a un’intera e articolata opera, e che spesso è citato a sproposito. Citata malissimo, come in queste ore sui social, rendendo stucchevole anche ciò che non è. Amen. Se lo si leggesse nudamente, è un ottimo distillato del metodo Kundera. Narratore-saggista, giocoso filosofo e insieme anti-filosofo capace di rendere duttile e sì, lievissimo, il corpo del romanzo: a tratti e più che mai nelle opere tarde, quasi impalpabile. Aereo, musicale. Milan, figlio di musicista, sapeva bene quale fosse l’unica arte priva di peso. E così la partitura del romanzesco ha sempre qualcosa di spiritoso, di ludico: anche quando la posta in gioco è tragica. In fondo, basta saper guardare alla giusta distanza perfino i Pesi Massimi: le ideologie, la loro verità ingombrante e metallica. Uno come lui, uno che ripara in Francia dopo essere stato espulso dal Partito comunista (e scrive in francese) e sperimenta l’amarezza dell’esilio, non faceva fatica a ridurre all’insignificanza anche il paludamento di un funzionario di Stalin, tanto più se sofferente di prostata. Niente, sulla crosta del mondo, è davvero immortale (ah, che meraviglia quel libro che si chiama L’immortalità, in cui Goethe ride delle proprie illusioni!). Forse è eterno il balbettio dell’arte? Forse. Di certo non i nostri amori “ridicoli”, che pure tanto ci impegnano le giornate, e ci mettono alla prova: Kundera infatti li mette in scena di continuo, e col piglio del drammaturgo innamorato del dialogare fra amanti, soprattutto quando gira a vuoto, quando sfiora il sublime scivolando, appunto, nel ridicolo. «Chiedersi che cosa sia l’amore non ha alcun senso, cara sorella… L’amore è l’amore, non c’è nient’altro da dire. Sono le ali che mi battono in petto e mi spingono ad azioni che a te sembrano irragionevoli». Ecco, caro utente social, se la citazione la posti così, non basta la firma a nobilitarla. Può sembrare una scivolata nel kitsch dell’intenso. Manca la cornice complessiva, manca il sorriso sornione e distaccato del narratore – che peraltro così spesso interviene. Un po’ alla Sterne, un po’ alla sé stesso: perché Kundera, affascinato dai “romanzi che pensano”, lavora sulla interferenza e sulla digressione, sul controcanto alla nuda trama. Prende la parola per fingere di desumere una morale, per approdare nei pressi dell’intuizione aforistica. Ma è uno scherzo – parola chiave, insieme alla parola sipario: è un gioco dell’intelligenza. La riflessione che infiltra il romanzo è – sostiene Kundera – «tenacemente autonoma rispetto a ogni sistema di idee precostituite; non giudica; non proclama verità; si interroga, si stupisce, sonda; assume le forme più diverse: metaforica, ironica, ipotetica, iperbolica, aforistica, divertente, provocatoria, estrosa; e soprattutto: non abbandona mai il cerchio magico della vita dei personaggi; è la vita dei personaggi ad alimentarla e giustificarla». Lezione non da poco: di uno straordinario professore di letteratura e di desiderio. Affascinato dai “donnaioli lirici”, dal ballo delle coincidenze e degli incontri fortuiti, dalla “fioritura” di ogni mondo interiore. Dalla capacità degli umani di difendere la propria libertà: la poesia avrebbe il dovere di aiutarli. Perché il bagliore di un verso può sbriciolare – per sempre, per un attimo – «la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che finisce per avvolgere ogni esistenza con nodi sempre più stretti». Kundera stesso di nodi ne ha sciolti parecchi; e si è reso irreperibile per decenni: difficile trovare il suo indirizzo, difficile che rispondesse al telefono. Un fantasma, come ha raccontato Ariane Chemin nelle pagine di Nome in codice: Elitar I. Sulle tracce di Milan Kundera (NR edizioni). Era scomparso da vivo, rinunciando – con grazia inarrivabile – all’insostenibile pesantezza dell’esserci. —
Francesco Piccolo per RepÈ morto lo scrittore più importante di tutti questi anni che abbiamo vissuto. Il più libero, il più vitale. E di cui avevamo più bisogno in questi tempi. Ma non possiamo considerarla una perdita effettiva, perché aveva deciso di scomparire dentro le strade di Parigi, affinché nessuno lo trovasse più; e quindi era già andato via. Ci restava solo la speranza di leggere ancora qualcosa; e questa speranza, tra l’altro, non se ne va con lui.Kundera non è stato soltanto un grande scrittore; ma è stato, anzi è, un esempio perfetto di cos’è uno scrittore. Quindi è anche un faro per chiunque nella sua vita consumi il proprio tempo leggendo e/o scrivendo. Lui, che è stato perseguitato dal regime comunista, nel suo libro più importante racconta un personaggio, Tomàs, che si ribella al regime comunista ma si ribella anche alle imposizioni di coloro che combattono il regime. Dice che anche loro praticano, dalla parte opposta, lo stesso sistema impositivo, con un ricatto civile e morale che li rende altrettanto repressivi. Lo chiamava judo morale, una mossa di quelle che mettono l’avversario sotto e lo costringono a battere la mano a terra per testimoniare la resa. E quanto più hanno ragione, tanto più usano la mossa.
In questi tempi di battaglie a favore o contro, di judo morale diventato lo strumento principale della vita pubblica, in cui gli scrittori sono convinti di dover avere un ruolo civile e lo impongono a discapito di un pensiero originale, Kundera ha insegnato a essere liberi, a essere autonomi, a essere individui. A essere singolari, per prendere a prestito un verso di Patrizia Cavalli. Non accodarsi né essere a capo di una coda, ma restare ostinatamente solitari e rifiutare i ruoli di eroi o di vittime. Se scegli di scrivere romanzi, parli da dentro i tuoi romanzi – dire soltanto attraverso la letteratura, e non avere altro compito che essere profondi, vivi, necessari. In questi tempi di rigidismi, puritanesimi e militanze cieche, era e rimane una presenza insostituibile per affermare l’estraneità dalla lotta in favore di un po’ di lucidità (per tutti noi) o di totale lucidità (per lui).
Quel libro era L’insostenibile leggerezza dell’essere, solo uno dei tanti capolavori della sua produzione, ma effettivamente il più bello. In Italia ne avevamo accolto prima la popolarità, attraverso una trasmissione televisiva come “Quelli della notte” di Renzo Arbore, in cui Roberto D’Agostino spiegava cos’era il kitsch teorizzato in quel libro, e la gente andava a comprare migliaia di copie senza sapere di cosa si trattasse – anche io, quando l’ho letto la prima volta, in quell’anno, non ci avevo capito niente, e continuavo a dire che era un capolavoro, ma non sapevo perché. Anche Antonello Venditti cantava una canzone con il titolo del libro, e diceva«non ti solleva Milan Kundera». Quindi sembrava a tutti uno scrittore popolare. È stato invece ostico e ostile, serio e dal pensiero potente, scrivendo libri anche comici o addirittura sarcastici, oppure romanzi filosofici. C’era qualcosa in lui di molto speciale, che si può provare a sintetizzare così: se aveva una caratteristica era quella di mettere a disagio, di non farti ritrovare in una posizione comoda, rassicurante. Non ti faceva fare sì con la testa mentre lo leggevi, perché approvando cosa leggi approvi in realtà te stesso. No, anzi. Molte volte, leggendo il libro di un autore, capita che questi ne esca ridimensionato; solo qualche volta, invece, accade che sia il lettore a uscirne ridimensionato; è raro, ma è questo il caso. Ogni libro di Kundera ti ridimensionava. E lui teorizzava, a proposito del romanzo: «La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancora più deboli, si vuole cadere in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso». A un certo punto ha cambiato lingua, dal ceco al francese, una cosa inaudita per uno scrittore, per non sentire più la sua voce tradotta in una lingua che ormai conosceva bene perché la viveva quotidianamente da anni. Di conseguenza, come capita a ogni grande scrittore, hanno tentato di denigrarlo, sminuirlo. Hanno tentato di dire che la sua opera uscendo dal suo Paese si era inaridita. Ma è perché erano stupiti da tanta nitidezza e autonomia di pensiero. Alla fine, adesso, anche per Kundera, come succede ad Agnes e Paul ne L’immortalità, l’ospite è arrivato a casa. E la risposta che dà ai due, preoccupati, su “cosa c’è là”, è la risposta che Kundera aspettava anche per sé stesso: «Ognuno là è la propria opera. Ognuno, per così dire, inventa se stesso. Ma è difficile spiegarlo. Non può capire. Lo capirà un giorno».
Lo capiremo un giorno anche noi. Ma Kundera lo aveva già capito da tempo, e aveva già lasciato che l’opera lo sostituisse. Aveva minacciato il mondo intero di non azzardare l’uso di parole che non stessero nella sua opera, parlando di lui. Nemmeno le interviste anche quelle aveva disconosciuto.
E adesso che l’ospite l’ha portato via, sappiamo che lì dove è andato, e per noi che restiamo qui, Milan Kundera è la sua opera, i suoi libri, i suoi romanzi. Non c’è stato forse nessuno che abbia creduto al romanzo quanto lui, alla sua forza nello staccarsi dalla cronaca e creare un pensiero originale, piccolo o grande che fosse. È una grande perdita; ma allo stesso tempo, ci ha preparati dicendoci che non abbiamo perso nulla di lui. Che tutto quello che ci spettava lo abbiamo avuto. Il resto non ci riguarda: è morto un essere singolare, appunto, non lo scrittore.

Anais Ginori per RepMilan Kundera e la moglie V?ra hanno vissuto per quasi quarant’anni come fantasmi nella Ville Lumière, da quando nel 1984 lo scrittore aveva deciso di scomparire, rifiutando qualsiasi intervista o evento pubblico. Lacoppia, che non ha avuto figli, usciva poco dal domicilio nascosto in fondo a una piccola via senza sbocchi vicino ai giardini del Luxembourg. Capitava di vederli passare come ombre sul boulevard Raspail. Un uomo alto e incanutito e una piccola donna con un taglio alla garçonne. Le persiane sempre chiuse in quella che V?ra definisce “la nostra prigione”. Sul citofono del loro appartamento, solo il nome di uno dei suoi amici romanzieri e quello del suo traduttore islandese. Pochi gli amici fidati invitati nell’eremo parigino, come il filosofo Alain Finkielkraut, la scrittrice Yasmina Reza, l’intellettuale Christian Salmon. Per comunicare con Kundera c’era solo il telefono fisso e un segnale in codice: prima uno squillo, poi due.V?ra Kundera era la guardiana di questa intimità protetta. Prima di essere la musa e l’unico tramite per comunicare con Kundera, era una delle giornaliste televisive più famose nella Repubblica Ceca, fu lei ad annunciare in diretta l’invasione dei carri armati russi nel 1968. La prima moglie di Kundera, Olga Haas, figlia del compositore vittima dell’Olocausto, vive ancora a Brno, nella città natale di Kundera, ed è rimasta legata a un patto del silenzio con l’ex marito. Nella Repubblica Ceca è emerso un disamore per il romanziere che nel 1975 ha scelto di esiliarsi a differenza di altri intellettuali come Vaclav Havel poi diventato Presidente.
A Praga non c’è più traccia dei Kundera in via Bartolom?jská, la strada dove abitava la coppia prima di fuggire. Anche la facoltà di cinema dove il romanziere insegnava negli anni Sessanta non ha pensato di onorare lo scrittore.
L’unico momento in cui Kundera ha riparlato, con un laconico comunicato, era stato per commentare la notizia di un dossier della polizia segreta che sorvegliava Kundera, ribattezzato nei rapporti “Elitár”, elitista. Si trattava di documenti a proposito del caso Dvo?á?ek, dal nome di un giovane oppositore del regime comunista che fu espulso da nel 1950 e che, secondo alcuni media locali, sarebbe stato denunciato da Kundera. Lo scrittore aveva perso la nazionalità durante la dittatura e l’aveva recuperata solo qualche anno fa per volere del premier Andrej Babiš. L’oligarca anti-sistema era venuto personalmente a Parigi per riconciliare lo scrittore con il suo Paese, senza davvero riuscirci.
Il romanziere ha ottenuto la nazionalità francese nel 1981, cominciando a scrivere nella lingua locale per Gallimard. Ma anche i rapporti con il mondo letterario parigino sono stati tormentati. L’identità venne stroncato da diversi giornali, la coppia decise di non frequentare più alcuni intellettuali. Per vendicarsi Kundera aveva scelto di pubblicare prima in Spagna e in Italia i suoi romanzi successivi, L’ignoranza e La festa dell’insignificanza. Lo scrittore aveva poi imposto tagli e modifiche alle sue opere raccolte nella prestigiosa collana Pléiade. Milan Kundera amava citare una frase di Flaubert: «L’artista deve arrangiarsi per far credere alla posterità che non ha vissuto».