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 2023  luglio 11 Martedì calendario

Cronaca della fine del fascismo (3)

Ma le note riservate d’informazione dei servizi segreti misurano la frequenza degli incontri, non la febbre che cresce. Soprattutto non segnalano l’attivismo del Duca d’Acquarone, che raccoglie le insofferenze politiche dentro il partito e fuori per portarle fino alla soglia del trono. Il Duca sta incominciando a lavorare anche nella direzione contraria, portando prudentemente fuori dal Palazzo i primi dubbi del Re, la sua amarezza per il corso della guerra, l’idea titubante che bisogna guardare oltre la dittatura. Questo schema restituirà centralità alla Corona, che potrà rientrare in possesso della sue prerogative, e che per questa via proverà a salvarsi dalla sconfitta in guerra e dal collasso del regime. In fondo la monarchia sabauda regnava prima del fascismo che l’ha ridimensionata, ma che adesso può rivelarsi soltanto una parentesi nella storia italiana. Il problema è trovare il passaggio che assicuri alla dinastia di regnare dopo il crollo che si avvicina. E d’Acquarone, con circospezione, spinge i visitatori più fidati davanti al sovrano con il mandato preciso di convincerlo che la monarchia è condannata come il fascismo se non spezza immediatamente il connubio, separandosi dal Duce e costruendo un ponte verso il dopo.
I partiti cancellati dalla scena pubblica hanno ricominciato a muoversi nella clandestinità.
organo del Partito d’Azione, denuncia nelle sue poche pagine «la crisi di un regime infame e di uomini corrotti», denuncia «il tentativo di liquidare Mussolini mantenendo però in piedi le forze della reazione», e invita «tutte le forze di sinistra a non lasciarsi ingannare, perché le destre reazionarie, politicamente ed economicamente, devono cadere con il loro Capo». Il Re legge le intonazioni repubblicane che emergono con chiarezza dopo la lunga pratica di connivenza sabauda col fascismo: «L’autocrazia politica e sociale che da 20 anni soffoca ogni libera voce e sopprime ogni legalità per instaurare il regno dell’arbitrio, vede spuntare ormai il crepuscolo sanguigno della suprema avventura imperialistica e, colpita al cuore, vorrebbe trascinare il Paese con sé nella morte e nel disonore», scrive il giornaleazionista. «Questo gioco sinistro non può riuscire, non deve riuscire. Il regime è condannato dalla coscienza morale del mondo, e il Paese deve separare da esso la propria responsabilità. Nessuno attenda la salvezza della Patria dall’intervento di istituzioni – come la monarchia – che col regime hanno diviso ogni responsabilità e con esso debbono perire». Poi lo slogan che raccoglie tutto, in una bandiera: «Chiamiamo i liberi e gli audaci a creare un movimento che, arrestando il Paese nella sua corsa verso l’abisso, imponga la pace immediata, la decadenza del regime autoritario, l’instaurazione di un sistema fondato sulle libertà civili e politiche, per una rinnovata coscienza liberale e una moderna democrazia del lavoro».
L’Unità, organo centrale del Partito Comunista d’Italia, già dal primo
numero di quel 1943 invitava a seguire l’esempio bolscevico: «Gli hitleriani sono battuti e scacciati dall’URSS. Battiamoli e scacciamoli anche noi dal territorio italiano». Ora incita a concentrare le forze contro il Duce: «Mussolini è il responsabile, va cacciato dal potere. Il tramonto del fascismo assomiglia alla sua origine: sorto con la violenza, esso non può mantenersi al potere che con la violenza. La risposta dev’essere la violenza». Segue l’appello a unire le forze nel Fronte Nazionale lottando «per la pace separata immediata dell’Italia, per la rottura della mostruosa alleanza con la Germania, per l’abbattimento del regime fascista e la conquista delle libertà democratiche», a diffondere
l’Unità
e a partecipare alla sottoscrizione per il giornale, che ha già raccolto 152.546 lire: “un fabbro” ha versato 50 lire, “un cascinaio” 100, “due ammiratori di Stalin” 22, “un ex gerarca fascista” 65, “un infermiere” 5, “un meccanico” 2, “sei spartachiani” 100, “un parrucchiere” 50, “un artista lirico” 200, “Viva Timishenko” 116, “un gruppo di soldati” 100, “un nemico di Mussolini” 10, “un droghiere di Torino” 15. Poi l’invito a sintonizzarsi ogni martedì, venerdì e domenica alle ore 20,20 sulla lunghezza d’onda 33.67 per ascoltare Mario Correnti, che è lo pseudonimo di Palmiro Togliatti al microfono di Radio Mosca.
Quando il 2 giugno l’ex Capo del governo pre-fascista Ivanoe Bonomi torna al Quirinale trova il Sovrano come sempre incerto, mentre tutto il mondo intorno a lui è in movimento. Il Principe Umberto incontra uomini politici in indirizzi privati, come la villa dell’antiquario Accorsi a Torino. La Principessa Maria José è la più attiva, tanto che Vittorio Emanuele la considera “un’intrigante”, la dirotta a Sant’Anna di Valdieri, diffida della sua rete di contatti continui con i frondisti che circondano Grandi, con gli antifascisti come Einaudi, col generale Ambrosio, con monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro Papa Paolo VI, Sostituto allaSegreteria di Stato Vaticana, e anche con gli Alleati. Il Conte di Torino ha appena incontrato Alberto Pirelli e si è lasciato sfuggire l’ipotesi di una possibile abdicazione del Re. Qualcuno si spinge addirittura a pensare ad una doppia rinuncia, del Re e del Principe di Piemonte, in favore del piccolo Vittorio Emanuele, che ha 11 nomi di battesimo, ma soltanto sei anni. Il sovrano però non pensa affatto a lasciare il trono, e d’Acquarone avverte i sudditi che entrano al Quirinale in udienza di non sfiorare nemmeno l’argomento.
Pressato, sopravanzato, impaurito, il monarca ascolta i consigli e le suppliche dei suoi interlocutori, ma allarga le braccia congedandoli senza scoprirsi. Al ministro dei Lavori Pubblici Zenone Benini che lo scongiura di liquidare la dittatura, fa capire che l’impresa è sproporzionata: «Lei confida troppo in me». A Bonomi che lo invita a cacciare Mussolini e a formare un governo di transizione, per poi arrivare ad un esecutivo politico, risponde come a tutti: «Si fidi del suo Re». Ma è lui che sembra non fidarsi di se stesso, timoroso di sbagliare, convinto che Mussolini sia ormai un ostacolo ma dubbioso sulla liquidazione del fascismo, ostinato nella ricerca di uno strumento costituzionale che lo obblighi ad agire più che a decidere. L’8 giugno convoca l’ex ministro liberale Marcello Soleri. Si salutano in piemontese (Soleri è di Cuneo), parlano in confidenza, l’ospite chiede al Re una soluzione immediata, lo informa che la tendenza antimonarchica sta crescendo nel Paese e lo avverte che la monarchia può salvarsi solo liberando subito l’Italia dal fascismo. Vittorio Emanuele lo invita ad agosto a Sant’Anna di Valdieri senza prendere alcun impegno.
Ma nel silenzio della Corona qualcosa finalmente si muove. Da quando aveva perso la carica di Capo di Stato Maggiore Generale nel dicembre 1940, il Maresciallo Badoglio non aveva più incontrato il Re. Manteneva un contatto con la Casa Reale attraverso il suo rapportospeciale con Maria Josè che già nel settembre 1939 aveva invitato i Duchi di Addis Abeba nel castello di Racconigi e poi aveva restituito con il Principe Umberto la visita alla villa della Vittoria. Poi un incontro segreto al castello di Sarre nel ’42, e altri colloqui ripetuti a Roma, con una procedura riservatissima. Ma l’obiettivo di Maria José, che ora parla distesa sul divano per la fatica della quarta gravidanza ormai alla fine, è sempre lo stesso: Badoglio deve agire, tocca a lui. «Ma come posso io, da solo – domanda ogni volta il Maresciallo – rovesciare un governo?». Adesso va al Quirinale, fa al sovrano un quadro della guerra drammatico, lo invita a intervenire. Nessuna risposta. Ma il Duca d’Acquarone quand’era un giovane tenente era stato ufficiale d’ordinanza del Maresciallo, e si fida di lui per vecchia consuetudine. All’uscita dall’udienza lo informa che il Re ha deciso, vuole agire, e lo farà: bisogna attendere il momento giusto, il Maresciallo si tenga pronto.
Badoglio si muove come se avesse avuto un pre-incarico, e incontra subito il nuovo Capo di Stato Maggiore, generale Vittorio Ambrosio, fedelissimo del Re. Su invito del Ministro della Real Casa i due varano un vero e proprio piano operativo, che prevede l’arresto di Mussolini con 6 gerarchi di prima fila, dopo aver messo fuori gioco la divisione corazzata della Milizia. È un piano militare. D’Acquarone partecipa all’ultima riunione a casa di Badoglio, trasformandola così in una sorta di congiura istituzionale contro il dittatore. Ambrosio chiede venti giorni per spostare con prudenza a Roma le truppe necessarie. Uscendo dalla casa del Maresciallo, il generale legge sul timpano dell’atrio il bollettino della Vittoria riprodotto nel muro in caratteri maiuscoli: «Oggi, 5 maggio, alle ore 16, alla testa delle truppe vittoriose sono entrato in Addis Abeba».
È chiaro, a questo punto, che il generale e il Maresciallo hanno avuto via libera dall’alto per organizzare un vero e proprio colpo di mano contro il governo in carica e il Capo del regime. Non col sigillo del Re, che rimane nell’ombra fino all’ultimo minuto, ma comunque con l’incoraggiamento del Quirinale. Il ministro della Real Casa porta infatti l’autorità riflessa del sovrano fino al consenso sul piano d’azione. Ma fa molto di più. D’Acquarone infatti è anche il contatto di vertice per il gruppo di gerarchi ribelli che è deciso a sferrare l’attacco a Mussolini nel Gran Consiglio, dando corpo alla parte politica dell’operazione. Il Quirinale, con il Duca, si trova così al centro di due manovre parallele che sembrano procedere ignorandosi, anche se in realtà d’Acquarone tiene in mano il regio bandolo di entrambe le reti tese per imbrigliare Mussolini, quella politica e quella militare.
Il pezzo forte della seconda rete è il conte di Mordano, Dino Grandi, fresco cugino del Re grazie alla nomina caldeggiata da Mussolini a Cavaliere dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata. Quel titolo e quell’onorificenza non sono gli unici: medaglia d’argento al valor militare, Grandi è Cavaliere di Gran Croce Magistrale del Sovrano Militare Ordine di Malta, dell’Ordine del Leone Bianco, dell’Aquila Bianca, del Piano, dei Santi Maurizio e Lazzaro, della Corona d’Italia e infine dell’Ordine Coloniale della Stella d’Italia. Quando gli ha conferito il Collare dell’Annunziata, Vittorio Emanuele si è compiaciuto di salutarlo come uno degli uomini politici più vicini alla Corona. Tra il Duce e l’avvocato di Imola c’è davent’anni un’intesa e una sfida. L’incontro è dell’ottobre 1914, e quando Grandi entra alla Camera, va subito in scena il primo dissenso: con il giovane deputato che propone ai fascisti di sedersi in aula sugli scranni «più in alto, a sinistra», mentre Mussolini li porta a destra «per guardare in faccia i nostri nemici». Il contrasto continuerà, coltivato con cura da Grandi, in una sorta di eresia controllata che nel ’24 lo porta a definire il fascismo «un fenomeno transeunte nella vita italiana» e nel ’42 lo spinge a confidare a Ciano quasi un ripudio: «Non so come ho fatto a contrabbandarmi per fascista attraverso vent’anni». Nonostante questo controcanto continuo, Mussolini ha sempre puntato sulle doti diplomatiche del suo cripto-rivale, nominandolo ministro degli Esteri e della Giustizia, ambasciatore a Londra e presidente della Camera dei Fasci. Naturalmente tenendolo sempre d’occhio, per timore delle sue relazioni e ancor più delle sue intenzioni. Le cariche concesse dal Duce ai gerarchi erano anche un vincolo, come confermano le condizioni che nel maggio 1925 il Capo del governo fissa a Grandi nel momento in cui lo nomina sottosegretario agli Esteri: «Abbandonerai in modo assoluto la politica interna e di partito nelle quali noi due non sempre siamo stati d’accordo, e ti concentrerai esclusivamente sui problemi internazionali. Se darai buona prova, in pochi anni ti lascerò il mio posto di ministro degli Esteri». Ma tutto, o quasi, si era già consumato tra i due nel giorno della Marcia su Roma. Grandi la critica in pubblico, e non partecipa. Conquistato il potere, Mussolini riceve il gerarca nell’ufficio di Capo del governo, come se volesse mostrargli l’errore che ha compiuto: «Ti sei sbagliato. Non hai creduto nella mia stella, ma nell’inesistente coraggio dei nostri nemici». C’è ormai, dopo l’ultimo rimpasto di governo che ha estromesso la vecchia guardia, anche un fondo di rancore, o almeno di risentimento. Ma il Duce appare adesso quasi rimpicciolito dagli eventi, ridimensionato, costretto a scendere da cavallo. Lo informano che circolano voci su un trasferimento di sicurezza del governo a Vienna, e lui deve mettere in campo la sua personale dimensione eroica per smentire: «Qui mi hanno preparato un rifugio, ma nessuno creda che io vi scenda – dice al sottosegretario agli Interni Albini –. Anzi, quando suonano le sirene andrò sulla terrazza. E se gli angloamericani dovessero arrivare a Roma, mi troverebbero al mio posto di lavoro». Grandi smentisce con tutti, ma forse pensa che se Mussolini cade potrebbe toccare a lui: con i suoi 48 anni, il pizzo curato e i baffi scuri, la competenza giuridica, militare, diplomatica e istituzionale, è pronto: soprattutto quando indossa l’uniforme da ambasciatore, con la redingote, il cappello bicorno e la spada.
Negli ultimi tre giorni, immediatamente prima di salire sul ring del Gran Consiglio incontra tutti, ad alcuni mostra il testo dell’ordine del giorno che presenterà sabato, ad altri lo illustra soltanto. Il documento è congegnato con abilità, ha un obiettivo radicale e un linguaggio moderato, non chiede mai la cacciata di Mussolini anche se è concepito per provocarla, così come non prevede la denuncia dell’alleanza con la Germania, ma la prepara. Grandi non vuole spaventare i gerarchi più fedeli al Duce o più paurosi, costringendoli a un salto nel cerchio di fuoco: al contrario, vuole invitarli a far parte di un progetto di soluzione della crisi che può sembrare un ponte tra il prima e il dopo, mentre invece è una rottura. Vede Farinacci che però è sulla sponda opposta alla sua: «Non è la Costituzione che bisogna ripristinare, ma è la dittatura che bisogna finalmente instaurare davvero». Incontra più volte Federzoni, con cui è intimo. Parla con Bastianini. Riceve Cianetti. Visita il presidente del Senato, Suardo, che a malincuore aderisce. A casa di Bottai legge il documento a Galeazzo Ciano, che è d’accordo, come l’ambasciatore d’Italia a Berlino, Dino Alfieri, che avverte tutti: Hitler non perdonerà mai i firmatari. Infine Grandi va a trovare il segretario del partito, Scorza, che sorprendentemente gli dice di sì. Gli lascia il testo dell’ordine del giorno, chiedendo che sia portato a conoscenza del Duce. Ormai si gioca a carte scoperte.
A Mussolini basterà scorrere quel documento per restituirlo a Scorza con una bocciatura senza rimedio: «Inammissibile». Il dittatore coglie tutta l’insidia, individua subito il bersaglio: lui stesso. La partita diventa mortale. Soltanto Grandi conosce la carta segreta che lo ha convinto a rischiare il tutto per tutto. Il 4 giugno aveva chiesto un’udienza al Re, immediatamente concessa. A sorpresa invece di ascoltare tacendo, il sovrano incominciò a denunciare la gravità del momento per l’Italia, e giunse a confidarsi in modo del tutto inconsueto: «Dirò a lei quel che non ho detto sinora a nessuno. Anch’io credo che un capovolgimento della situazione sia necessario. Al momento giusto prenderò le decisioni opportune». Ma con il suo ospite il Relamentò l’impossibilità di usare la Camera e il Senato per un voto che avrebbe obbligato e legittimato la Corona ad agire. E qui Vittorio Emanuele introdusse una novità: «Ella lavori a facilitarmi il compito, usando magari il Gran Consiglio come surrogato del Parlamento». Il Gran Consiglio come soluzione, all’improvviso. Dunque il Re cercava uno strumento costituzionale capace di sancire la fine dell’epocaMussolini, e lo aveva trovato. Il Gran Consiglio, per volere del Duce, era a tutti gli effetti un organo costituzionale. Bisognava seguire l’indicazione del Sovrano, che sembrava voler dire: datemi un voto di sfiducia da parte di un’istituzione che ne abbia la legittimità, anzi io vi indico l’unica oggi agibile, attivatela. E poi? Il Re non era andato oltre anzi, aveva subito avviluppato il tutto in un manto di sovrana prudenza: «La impegno al massimo segreto su quel che le ho detto, con chicchessia», si era raccomandato, salutando Grandi. Come se, per una volta, si fosse sporto troppo in avanti.
D’impulso, il giovedì 22 Grandi chiama Palazzo Venezia e chiede di incontrare il Duce. Non lo aveva previsto, gli aveva inviato l’ordine del giorno attraverso Scorza. Oggi sente bisogno di un ultimo confronto faccia a faccia, a due giorni dal Gran Consiglio dove quel rapporto tormentato tra Mussolini e l’eretico in un modo o nell’altro si scioglierà. Fissato subito, alle 17. Il Duce non fa sedere il gerarca, lo affronta in piedi, in mezzo alla stanza con la porta chiusa. Grandi gli anticipa quel che dirà nel Gran Consiglio, poi gli chiede «di deporre spontaneamente nelle mani del Re tutti i poteri civili e militari, come unica alternativa possibile per una soluzione della guerra e per il ripristino integrale della Costituzione. Questa – conclude – è l’ultima possibilità che ti è data di rendere un servigio al Paese». «Hai finito? Allora sappi – risponde Mussolini – alcune cose che dovrai fissarti bene in mente. 1: la guerra è ben lungi dall’essere perduta, tra poco si verificheranno avvenimenti straordinari che ne capovolgeranno le sorti; 2: io non cedo i poteri a nessuno, il fascismo è forte, la nazione è con me, mi hanno obbedito e mi obbediranno; 3: è vero che c’è molto disfattismo in giro, ma sarà curato come si merita. Per tutto il resto arrivederci in Gran Consiglio. Puoi andare».
Sono passati due giorni, Grandi adesso sta per uscire, è pronto. Ilmomento è venuto, ci siamo, nessuno sa cosa potrà davvero succedere. Come si difenderà Mussolini? Farà arrestare tutti oppure si arrenderà al voto? Magari il suo inconscio assediato già lo vive come una liberazione. Ma si arriverà mai ad un voto? E tutti quei gerarchi che si sono detti d’accordo col documento, manterranno l’impegno oppure lo sguardo del Duce li richiamerà all’ordine? Lo sguardo. Tutto ritorna a quell’immagine dilatata dal Ventennio che ora incombe su Grandi, il fascista che sta per entrare nella storia da Capo della congiura: è come se avesse il Duce davanti a sé, ubiquo, onnipresente, che lo fissa negli occhi, mentre legge ancora una volta l’ordine del giorno nel passaggio fondamentale: «È necessario il ripristino immediato di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento i compiti e le responsabilità stabilite dalle leggi statutarie. Il Capo del governo dovrà pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia assumere con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono».
Adesso tutto è chiaro. Torna in gioco lo scettro: e che farà la spada?
L’ultimo appello è per il Re, ma imbottigliato insieme con tutte le incognite dello scontro nel Gran Consiglio, in modo che la lettera venga consegnata al sovrano solo dopo le cinque, quando la partita sarà già in corso. Grandi chiude la busta che contiene la sua firma sotto poche frasi, con un’abbondanza di maiuscole. Vittorio Emanuele le leggerà senza sapere ancora se Il Duce è sfiduciato oppure se ha sconfitto i ribelli: «Sire, è mio dovere portare a conoscenza di Vostra Maestà l’ordine del giorno che sottopongo al Gran Consiglio. Non solo come presidente dell’assemblea legislativa, ma altresì come soldato, oso supplicare Vostra Maestà, in queste ore così gravi e decisive per le sorti della Nazione e della monarchia, di non abbandonare la Patria. Il Re soltanto può ancora salvarla». Mussolini sta arrivando in auto a Palazzo Venezia, si guarda attorno in silenzio e trova Roma impallidita, come se l’anima della città avvertisse che sta per succedere qualcosa di decisivo, che nessuno conosce. Anche Bottai è a pochi passi, e porta con sé un messaggio del Principe Ereditario Umberto, tagliato fuori dal Re da ogni decisione cruciale del momento, ma convinto che il Gran Consiglio possa essere il luogo decisivo «per salvare la cattolicità, la monarchia e quel tanto di fascismo che costituiscono i valori italiani in quest’immane crisi». Eccolo infine, il buon Dio. Invitato da una supplica principesca che gli indica il pericolo per la “cattolicità”, appaiata a ciò che resta del fascismo, stasera entra anche lui nella sala del Gran Consiglio.